Gli studenti inglesi stanno incendiando Londra (anche qui con la pessima scena dell’assedio al Parlamento) per protestare contro l’aumento delle tasse universitarie. Tre poliziotti sono finiti all’ospedale. Da noi le tasse non crescono, ma gli studenti protestano lo stesso, perché non tutti i ricercatori universitari diventeranno professori a pieno titolo. Che, se lo divenissero, per gli studenti odierni non ci sarebbe più posto, nelle università, per una quindicina d’anni. Forse farebbero bene a guardare in giro per il mondo, e rendersi conto di esserne fuori.
Mentre gli studenti delle medie superiori protestano e sentono minacciata la libertà culturale della scuola che frequentano, quella, in realtà, risale le classifiche mondiali della qualità. Contemporaneamente i più favorevoli all’azione governativa segnalano, non senza soddisfazione, la risalita, ma i dati Ocse snudano un drammatico arretramento, relativo alla disomogeneità dei risultati nelle varie parti d’Italia. Lasciamo la propaganda a chi non ha altro da fare e proviamo a capire come quei numeri possono aiutarci a migliorare. Anzi, mi sbilancio: a fare la rivoluzione.
Il dato globalmente più rilevante è che gli studenti cinesi (di Shanghai, per la precisione) sono saldamente in testa a tutte le classifiche. Sono tanti, sono bravi, frequentano una scuola meritocratica e di qualità. Dato che i nostri ragazzi faranno fatica a competere con loro sul costo del lavoro, ne deriva che se non ci sbrighiamo a cambiare saranno guai. Seri. A fronte di ciò, nella classifica dei 74 Paesi misurati, guadagnamo qualche posto, collocandoci più o meno alla metà. Bene? No, perché è troppo poco e troppo lentamente. No, perché siamo in cima alla classifica più negativa, quella che misura le distanze interne fra la diffusione della conoscenza e la semina dell’ignoranza. Viva il passo avanti, ma qui dobbiamo correre.
Ecco come: prendiamo questo tipo di test (Pisa – Programme for International Student Assessment) e ce li facciamo in casa, tutti gli anni due volte all’anno, poi pubblichiamo i risultati. S’innesca la rivoluzione. Il sistema dei test, in sé banale, lo abbiamo già, sono le prove Invalsi. Dobbiamo farli a tappeto e subito comunicare alle famiglie quali sono i risultati: per l’Italia, la regione, la provincia e la città, anche la sezione. I test sono anonimi per gli studenti, ma non per i loro professori e per gli istituti scolastici.
Per le scuole, infatti, vale lo stesso principio tante volte richiamato per la giustizia: le leggi sono le stesse, le regole idem, le modalità di selezione del personale anche, quindi non si giustificano così drammatiche sperequazioni territoriali. O, meglio, così come per i tribunali ci sono scuole bene amministrate e scuole lasciate al pascolo di docenti e dirigenti incapaci. Abbiamo il diritto di sapere quali sono.
La scuola pubblica non è gratis, la paghiamo, e anche tanto, con le tasse sul reddito e con quelle d’iscrizione. La scelta dove mettere i nostri soldi, però, ci è sottratta, perché la gran parte dei nostri figli viene assegnata ad una determinata scuola sulla base della residenza. Ed è qui che si deve far saltare il sistema: le famiglie hanno diritto di sapere e, conseguentemente, di scegliere. Le scuole che verranno scartate possono anche chiudere, quelle più massicciamente scelte meritano più soldi. Gli insegnanti che totalizzano i migliori risultati (misurati sulla qualità dei loro studenti, non di promozioni e bocciature che non significano e non dimostrano un accidente) meritano un premio, i loro colleghi meno capaci meritano di non continuare a far danni.
La rivoluzione è a costo zero, anzi porta risparmi. La digitalizzazione della didattica e dei libri di testo riduce significativamente i costi a carico del sistema e delle famiglie, consentendo un uso immediato e non taroccatile dei test. Non solo, i risultati, essendo pubblici, porteranno interesse verso gli insegnanti migliori e i loro metodi, aprendo loro un mercato e aprendo a tutti una competizione virtuosa. In questo modo si neutralizzerebbero due credenze velenose: quella che crede la qualità sia funzione della spesa, e quella che trasparenza e competizioni siano minacciose per i docenti. E’ vero il contrario, come dovrebbero sapere gli inglesi: mentre la spesa pubblica saliva i risultati delle loro scuole scendevano.
Su queste cose gli studenti farebbero bene a protestare e pretendere, chiedendo provvedimenti immediati e opponendosi a che la meritocrazia sia (falsamente) misurata con il tasso di bocciature. Se, invece, continueranno a strillare per cose che neanche si è in grado di definire con esattezza, tipo il diritto allo studio e il rifiuto del precariato, allora meriteranno la scuola che per loro è stata apparecchiata, sicché un giorno sarà una giovane Zhao a spiegare loro, ammesso che li trovino interessanti, i versi di Dante e sarà un prode Li a interpretare meglio le note di Verdi. Considerato che neanche la nazionale di calcio fa faville, potremmo anche metterla sul piano dell’orgoglio, oltre che della fin troppo ovvia convenienza.