Con la legge di stabilità il governo Monti giunge alla fine. Il dramma italiano è che le conclusioni reali diventano istituzionali solo con gran ritardo, trascinando le agonie. Ha concluso la sua corsa perché nacque da una doppia delega: il centro destra accettava di passare la mano, abbandonandosi al proprio disfacimento, giacché non più nelle condizioni di governare; il centro sinistra accettava di sostenerlo, in quanto non nelle condizioni di governare. Un doppio commissariamento. Dopo di allora i partiti più grossi sono stati incapaci di fare le uniche cose che competevano loro, a cominciare dalla legge elettorale. Ora, davanti a quella di stabilità, da sinistra e da destra si strappano le redini e si rinnega la delega. Quindi è finita. E dopo?
Va di gran moda la rottamazione, ma cosa succede dopo? C’è un percorso ragionevole, che ci porti dall’oggi al futuro senza far lunga tappa nella vendetta moralistica, nell’inconcludenza propagandistica o nella beffa elettoralistica? C’è un modo per andare da una classe dirigente fallita a una che sappia ripartire, senza passare per una classe intermedia d’urlatori demagogici, capaci di raccogliere la rabbia, ma incapaci di far uscire l’Italia dalla gabbia? A guardarsi in giro sembra di no, restando l’alternativa fra questo mondo politico e la sua dissoluzione nel nulla programmatico. Ma a ragionarci si deve rispondere che sì, un modo c’è. Richiede subito coraggio. Fin da ora, senza aspettare le elezioni.
Forze diverse, che restano diverse, hanno un dovere comune, consistente nel fare quello che i partiti fin qui più forti non sono stati capaci: un accordo, stipulato ora e impegnativo per il dopo elezioni, destinato a fissare i punti che chi vince s’impegna a realizzare e chi perde a lasciare che siano realizzati. Meglio ancora: a collaborare. L’accordo deve riguardare la radice profonda del nostro male, ovvero un assetto costituzionale nato per tenere assieme un Paese appena uscito dalla guerra civile e appena entrato nell’era della guerra fredda. Un assetto oramai fuori dal tempo e dalla storia. Non è questione di destra o sinistra, ma di ragionevolezza allo stato puro, bastevole per fissare i paletti: a. fine del bicameralismo e della centralità parlamentare; b. più poteri al governo, anche nel fissare i calendari parlamentari; c. sistema elettorale maggioritario, talché siano gli elettori a stabilire chi governa.
Attorno a questi paletti si possono costruire architetture diverse, ma occorre stabilire, fin da subito, che razza di assetto istituzionale si vuole. Lo spazio temporale dell’accordo deve essere stretto, perché è giusto e naturale che la politica sia restituita al conflitto delle idee e degli interessi. Ma l’accordo deve esistere, altrimenti perdiamo ancora lustri in menate costituenti e discussioni inconcludenti.
La stessa cosa può concretizzarsi in campo economico, fissando i seguenti punti: 1. aggressione del debito mediante dismissione di patrimonio pubblico; 2. contrazione della mano pubblica, facendo scendere la relativa spesa; 3. riduzione della pressione fiscale, portandola, quanto meno, alla media europea. Anche in questo caso esistono approcci e realizzazioni diverse, ma quello cui non si può rinunciare è fissare la direzione di marcia.
Chi potrebbe aderire a un simile accordo? Vorrei rispondere: tutte le persone e le forze raziocinanti. Conosco l’obiezione: se Pdl e Pd facessero una cosa simile sarebbero morti, perché esistono in quanto contrapposti. Questo è il punto: non si sono ancora accorti che è finita, che il bipolarismo forzato e fazioso, privo d’idee e colmo di suggestioni irrazionali, ha chiuso, non tira più, mentre la seconda Repubblica ha già tirato le cuoia. Chi, però, non può non fare i conti con tale necessità sono le forze e le persone che più puntano sul dopo: la ventata iconoclasta di Matteo Renzi; la più prudente speranza lib-lab di Renato Brunetta, Giuliano Cazzola e altri; la rottura invocata da Fermare il declino; l’alternativa inseguita da Italia futura; i tentativi pisacaneschi di LeAli; la lunga riflessione di Società Aperta e così andando. Questi non possono sottrarsi. Senza ammucchiarsi, restando distinti, ma dimostrandosi capaci di un accordo immediato. Per non perdere tempo, e per dire agli elettori che c’è un’alternativa, seria, possibile, a portata di mano. Per non cedere né alla rassegnazione né alla pernacchia.