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Sala(ria)ti

Sala(ria)ti

Nel Paese con troppi pensionati troppo giovani e taluni giovanissimi, ci si ritrova con troppi giovani che avranno pensioni troppo basse e ottenute in ritardo rispetto a genitori e nonni. È una bella cosa che governanti e oppositori si siano incontrati per discutere – senza granché capirsi – del salario minimo, ma sia gli uni che gli altri farebbero bene a ragionare del mercato del lavoro nel suo insieme, del livello medio dei salari, di quanto lo stare sotto la media europea sia dovuto più ai salari non alti che a quelli bassi, di quanto l’andamento salariale sia legato alla produttività. Dimostrerebbero, sia pure con idee diverse, di ragionare dell’intera società. Altrimenti saranno le solite sparate propagandistiche.

Teniamo presenti quattro cose. 1. Si discute ora di salario minimo perché c’è in ballo una direttiva europea, la Commissione stessa specifica che l’Italia è uno dei Paesi Ue meno toccati, avendo una percentuale molto alta di dipendenti coperti da Contratto collettivo nazionale, che già prevede i minimi salariali. 2. La destra al governo afferma oggi che sarebbe meglio lasciare tutto alla contrattazione collettiva, senza creare vincoli di legge, che è la posizione tradizionale dei sindacati, ergo della sinistra che fu. 3. Fatto è che i salari sono cresciuti di più nei comparti e nelle aziende dove funziona di più la contrattazione decentrata, cosa che, in via teorica, dovrebbe premere a chi difende gli interessi dei lavoratori e a chi quelli del sistema produttivo. 4. Fissare per legge un salario minimo è utile e non è vero (vecchia tesi della sinistra sindacale, ora risorta a destra) che comporti il pericolo di far diminuire i salari, il punto decisivo è dove tirare la riga del minimo: troppo in basso serve a nulla, troppo in alto genera lavoro nero o altri disoccupati; sentire parlare di “mediana” e “media” come fossero sinonimi, non conforta.

I salari italiani sono (mediamente) bassi, ma hanno seguito l’andamento (medio) della produttività. Non è che si possano alzare per alzata d’ingegno. Quel che si può fare, a parte fissare un minimo che sia minimo sul serio, è diminuire il carico fiscale e previdenziale che li grava. Ma per farlo si deve non dico realizzare, ma almeno promettere una diminuzione della spesa pubblica corrente e smetterla di promettere ad altri di andare in pensione prima che i loro conti pensionistici siano in equilibrio. Finché non si sentirà almeno parlare di questa impostazione – la cui versione paraculturale s’incarna nel discettare di diritti cancellando i doveri – ci si starà prendendo in giro. E, francamente, che il naso sia menato a destra o a sinistra, cambia poco per i fondelli minacciati. Se si crea un fondo di soldi pubblici (dati o non riscossi) per finanziare il salario minimo, vuol dire che si sta concorrendo con le talpe a chi fa più buchi e più profondi.

Il che ci conduce alle pensioni dei giovani, che sicuramente dovranno lavorare più a lungo dei loro familiari pensionati (una recente proiezione parla di quasi il 52% fino a 70 anni, con punte fino a 75), ma mica potranno farlo in eterno. Il tutto per avere trattamenti pensionistici medi all’incirca un quarto inferiori. Promettere loro condizioni migliori, ma a carico della spesa pubblica, significa considerare l’egoismo generazionale e la propensione boccalona una specie di tara genetica. Semmai si deve progressivamente liberarli (loro e i loro guadagni) dal fardello della spesa pubblica corrente improduttiva e dal finanziamento di pensioni che non avranno, in questo modo liberando uno spazio per la loro prudenza e previdenza personale. Avranno una vecchiaia meno incerta se sapranno risparmiare e accumulare. Le formule finanziarie sono diverse, non correttamente assemblate sotto la voce: pensioni private.

Ragionare solo del presente non farà dei giovani dei salariati più pagati, ma dei lavoratori da tenere sotto sale, da conservare per pagare i conti salati loro lasciati. E non pochi se ne andranno, come già fanno.

Davide Giacalone,  La Ragione 12 agosto 2023

www.laragione.eu

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