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SassoMano

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Abbiamo descritto già ieri l’evidente incostituzionalità sul provvedimento banche. Ma a questo giro si sono davvero superati con imbarazzo del Quirinale stesso.

A questo giro l’hanno fatta grossa. Mettendo in imbarazzo il Quirinale. Abbiamo descritto ieri i profili di evidente incostituzionalità in capo alla trovata sulle banche. Ma c’è dell’altro e c’è di peggio.

La maggioranza di governo apprezzi la generosità con cui esponenti dell’opposizione, dai pentastellati ai piddini, sono corsi a dire che condividono quel provvedimento. Lo sprezzo del pericolo serve a dimostrare una cosa: non esistono un governo conservatore e una opposizione progressista, ma social-confusionari di destra e social-confusionari di sinistra. Si sia grati a uscite come quella di De Angelis (sulla strage di Bologna), che servono a rammentare quanto le differenze stiano più nel passato nostalgico che nel presente speranzoso.

Il guaio non è soltanto in quel provvedimento, ma nelle ore successive al suo trionfale annuncio. Ad esempio: hanno approvato il testo di un decreto, in Consiglio dei ministri, o no? Perché se lo hanno approvato ci sono in giro dei ministri dissociati, che vanno sostenendo che quanto hanno appena finito di approvare è da modificare. In evidente sprezzo del secondo comma dell’articolo 95 della Costituzione: «I ministri sono responsabili collegialmente degli atti del Consiglio dei ministri». In questo caso il Presidente della Repubblica dovrebbe firmare un decreto che, per sua natura, ha immediati effetti di legge, è immediatamente esecutivo, sapendo che chi lo ha approvato lo disapprova o, comunque, lo vuole cambiare. Se, invece, non lo hanno approvato – il che renderebbe razionali le parole dei ministri che propongono di cambiarlo – allora il Colle non lo può firmare, perché mancherebbe il passaggio decisivo, ovvero il varo in Consiglio. E da qui non se ne esce o, almeno, non se ne esce in posizione eretta. Tocca supplicare la clemenza della firma.

Ora osservate l’originale danza della quadriglia istituzionale: il Parlamento approva una delega fiscale senza neanche metterci i paletti dei criteri, delle aliquote e dei tempi, quindi spogliandosi del potere legislativo nel delicatissimo campo della tassazione che – assieme alla sicurezza personale – è la base storica del parlamentarismo; il governo ricambia esercitando il potere di decretare d’urgenza su questioni fiscali, ma subito chiarendo che non c’è urgenza e che il Parlamento farebbe bene a rivedere quella roba. Se fossero in discoteca potrebbero disporre del rientro in taxi a spese del contribuente.

Nel merito: prima il ministro dell’Economia si rifiuta di illustrare il mostriciattolo, poi prova a metterci una pezza dicendo che il prelievo non potrà eccedere lo 0,1% dell’attivo bancario. C’era nel testo, ma chi lo ha illustrato non lo aveva capito? E che c’entra l’attivo se anziché tassare quello si punta a un prelievo dato dal differenziale dei tassi d’interesse? Disse l’ottimo Antonio Tajani che quel decreto è una conseguenza delle scelte della Banca centrale europea, ma poi ha aggiunto che può essere cambiato, anzi no, che sarebbe bene cambiarlo.

Posto che la Bce non ha cambiato di un capello le decisioni prese, cosa gli era sfuggito al primo giro? Dice il fantasioso Matteo Salvini che con quei soldi si taglierà il cuneo fiscale. Ottimo argomento per aizzare la folla contro le banche, al grido di «Aridatece li sordi!». Ma se il provvedimento ha validità di un solo anno, il prossimo il cuneo ritorna al punto di partenza o si apre un concorso a premi per individuare un settore plutocratico che sia assai popolare andare a pelare?

A questo giro l’hanno fatta grossa. E il patetico tentativo di alcuni di lanciare il sasso e nascondere la mano s’è trasformato in una sassata sulle mani imprudenti che non sono riuscite a chiudere la bocca del genio da cui sono ospitate. Ma che importa? Facciamo un bel sondaggio, anche due o tre, vediamo se il popolo ha gradito. Tanto, quando in autunno sarà smontato il giochino, nessuno ci capirà niente. O, alle brutte, si potrà dire che sono stati i poteri forti. Il che, però, alimenterebbe speranze infondate sulla loro esistenza.

Davide Giacalone, La R

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