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Sbarcare

Sbarcare

Sbarcare nella realtà può essere faticoso, ma l’alternativa è annegare nel mare delle propagande irreali. Il Parlamento va in vacanza per cinque settimane, il governo ha chiuso ieri l’ultimo Consiglio dei ministri prima della pausa estiva, ma barconi e barconisti, disperati ed emigranti no, non vanno in vacanza.

Fra le onde hanno perso la vita un bambino, una donna incinta, altri senza identità, mentre i dispersi in mare sembrano annunci di altre vite andate. Dopo la tragedia di Cutro fu emanato un decreto che stabiliva che le Ong (Organizzazioni non governative) potessero fare un solo salvataggio per volta: se hai a bordo dei naufraghi e ne vedi altri, dici loro di galleggiare e aspettare. Ma sbarcando nella realtà è la Guardia Costiera a chiedere alle Ong di intervenire, di effettuare un salvataggio. Quelli vanno e intanto chiamano avvertendo di averne trovati altri e ricevono l’autorizzazione a tirarli a bordo. Siamo arrivati a sette salvataggi consecutivi, con tanti saluti al decreto e alla credibilità della legge. Poi non soltanto possono essere assegnati porti di sbarco più lontani, ma si è arrivati a darne due diversi, per dividere gli sbarcati. Prima li chiamavano “taxi” al servizio dei trafficanti, ora si fornisce loro l’indirizzo a tappe. La realtà è questa, con relativo raddoppio rispetto allo stesso periodo dell’anno scorso (più di 92mila da gennaio). Lampedusa esplode e ieri in 180 sono stati trasferiti in aereo, atterrato nell’appena riaperto aeroporto di Catania. La divisione del peso fra regioni crea polemiche. In Lombardia ne vengono destinati di più. Tutte cose già viste. Quelli che non si vedono, però, sono i titoloni e le grida contro l’invasione. Perché chi gridava è ora al governo e gli tocca sbarcare nella realtà. Dare ai governanti la colpa di quel che accade sarebbe ottuso, ma lo è anche nascondersi dietro a un dito.

È cambiata l’Italia. Leggete queste parole: «Per la fame. Siamo venuti giù per la fame. E perché se no? Se non era per la fame restavamo là. Quello era il paese nostro». Non sono le parole di un qualche africano e nemmeno quelle di meridionali emigranti. Inizia così la storia che Antonio Pennacchi raccontò nel suo Canale Mussolini: veneti che emigrano nell’agro pontino, dopo le bonifiche, detestati dalla popolazione locale, che li chiamava «cispadani» (ricambiata con «marocchini»). La storia di sempre, quella degli emigrati accusati di togliere il pane e volere approfittare della ricchezza. Ma è cambiata l’Italia. Ora ci mancano i lavoratori.

Da quando il governo (Meloni) ha meritoriamente varato un decreto flussi a portata triennale, aumentando considerevolmente il numero degli ingressi regolari, si sono succedute decisioni destinate a farlo crescere ulteriormente. Anche perché i 452mila immigrati ritenuti opportuni sono la metà dei necessari. Così si è detto: quanti si sono formati o hanno lavorato con ditte italiane – ovunque lo abbiano fatto – possono entrare. Ora si aggiunge: elettricisti, idraulici e assistenti per le famiglie sono i benvenuti. La realtà ha cancellato anni di urla.

I respingimenti francesi a Ventimiglia (la frontiera che attraversarono gli emigranti italiani clandestini, perché l’idea che la nostra emigrazione sia stata tutta regolare è una balla che fa a cazzotti con la storia) sono l’altra faccia della medaglia del trasudare, dall’Italia, di immigrati non identificati e non autorizzati. Ma la concorrenza fra Paesi europei, oggi, è a chi si piglia i migliori. La Germania agisce in coerenza, da Merkel a Sholz. Ed è una concorrenza comprensibile e nefasta, che lascia sul tavolo dell’Unione europea il pezzo peggiore e meno produttivo: gli irregolari. E invece è proprio sul fronte dell’accoglienza per necessità che si possono fare le cose migliori, mettendo anche in comune il lato duro dei respingimenti. Soltanto così si può passare dalle lamentazioni ipocrite e inutili all’utilizzo razionale e profittevole di una risorsa.

Per farlo si deve sbarcare nella realtà. Tutti assieme.

Davide Giacalone, La Ragione 8 agosto 2023

 

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