Nel tentativo di evitare le tensioni parlamentari si rischia di inasprire le tensioni sociali. Lo scorso 16 ottobre il governo ha illustrato la legge di bilancio, anche scendendo nei particolari, aggiungendo che non sarebbe stata emendabile. Dopo di che l’ha cambiata – lasciando inalterati i saldi – su sollecitazione di questa o quella parte della maggioranza politica che lo sostiene. Poi l’ha depositata in Parlamento e non aveva fatto a tempo a metterla nero su bianco che già suoi stessi esponenti, osservando la reazione di questa o quella categoria, parlavano della necessità di alcune modifiche. Restando il presupposto (che è una bestemmia) dell’interdizione alla presentazione di emendamenti per i parlamentari della maggioranza e avendo ampiamente dimostrato che il testo è modificabile eccome (avendo anche annunciato che ci sarà un maxi emendamento governativo), il risultato è che chi ha interessi – giusti o sbagliati – da far valere non si rivolgerà alla mediazione parlamentare, ma userà la piazza e la protesta affinché il governo stesso li ricomprenda nella prevista modifica dell’immodificabile. Un pessimo affare.
Prendiamo il caso delle pensioni dei dipendenti pubblici, medici compresi. In linea generale il sistema pensionistico dovrebbe essere la cosa più stabile in circolazione, possibilmente assieme al sistema fiscale: comincio a lavorare un determinato anno, sono obbligato a versare i contributi previdenziali (direttamente o per il tramite del datore di lavoro), ne trarrò beneficio alcuni decenni dopo. Sarebbe sano che le regole non cambiassero cammin facendo, invece cambiano di continuo. Ci sono coetanei entrati contemporaneamente nel mercato del lavoro che ne escono con regole diverse. Ma siccome l’andazzo è sempre quello di favorire o anticipando o sgravando (Alberto Brambilla di Itinerari Previdenziali avverte che con questa legge di bilancio l’Inps incasserà l’anno prossimo 16 miliardi in meno del previsto, su 190 totali), poi si deve recuperare quattrini in qualche modo e ora ci si prova ricalcolando la pensione per i dipendenti pubblici, che prima era stata impostata con ingiustificati privilegi. Ma questo comporta un effetto retroattivo sul patto previdenziale che, assieme al diverso calcolo dell’adeguamento al costo della vita (a seconda non della natura, ma dell’entità della pensione stessa), gira con il cartello “Incostituzionale” appeso al collo.
Facendosi belli con le decontribuzioni – volendo così far vedere che si favoriscono le assunzioni dei giovani, delle donne o al Sud – poi si devono prendere soldi dalla fiscalità generale per coprire gli ammanchi derivanti, in questo modo non avendo risorse da investire nella formazione professionale, negli asili nido e nelle strutture (anche sportive) per i ragazzi o per le infrastrutture, finendo con il danneggiare giovani, donne e Sud. Sicché si riesce a essere il Paese europeo con meno occupati fra la popolazione attiva e occupabile, ma anche quello cui mancano i lavoratori e le competenze da immettere nel mondo produttivo. Un controsenso pauperistico.
E siccome il futuro e la produzione di ricchezza non hanno rappresentanza, supponendosi che la vera partita consista nell’appropriazione delle risorse esistenti e dimenticando che su quelle grava un impressionante debito pubblico (che ci rende meno affidabili della Grecia), cancellando la mediazione politica e riducendo i parlamentari a pressatori di bottoni senza autonomia – a favore la maggioranza e contro l’opposizione – si comunica agli interessi costituiti l’opportunità di far caciara per prevalere e ai (pochi) non costituiti di costituirsi al più presto in corporazione rumorosa.
Se qualcuno crede che si possa procedere in questo modo, salvo poi puntare a riforme costituzionali nelle quali si scambia l’inamovibilità con la stabilità, commette un errore. Perché se il consenso lo si insegue con quel sistema non vi sarà mai nulla di stabile, essendo segati in partenza i pilastri della stabilità sociale.
Davide Giacalone, La Ragione 5 novembre 2023