Il superbuco, creato dal superbonus, divenuto la supersòla, ci aiuta a comprendere elementi essenziali per sperare di potere sbucare da qualche parte. Di farla finita con la Repubblica dei bonus.
Quando Mario Draghi arrivò a Palazzo Chigi, succedendo al governo che aveva ideato la trivella capace di approfondire la voragine del debito italiano, era noto che era stata messa in moto una macchina infernale, sicché il presidente del Consiglio ritenne che la trivella andasse fermata. L’allora ministro dell’economia, Daniele Franco la definì una truffa. Perché si limitarono ad introdurre flebili correttivi, rinunciando a fare quel che sarebbe stato necessario? Perché -lo ricordavamo ieri- chi aveva approvato la mostruosità continuava a difenderla e chi non l’aveva varata chiedeva che fosse ancora più grossa e dilapidante. Gli uni e gli altri componendo la maggioranza del governo Draghi. Questa è una risposta vera, ma insoddisfacente, che chiama un’altra domanda: perché Draghi, davanti al diniego, non si dimise?
Oltre a quelle evidenti, avrebbe avuto una ulteriore buona ragione per farlo: si era nel pieno della pandemia, si stava appena organizzando la rete per le vaccinazioni – che era stata avviata con le imbarazzanti primule, passando per i banchi a rotelle, e che sarebbe approdata ad una macchina perfetta, nel quadro di un accordo europeo che s’è rivelato un trionfo – in quel frangente Draghi sosteneva che non solo esistevano il debito buono e il debito cattivo, ma che quella era la stagione, per lo Stato, del dare e non del chiedere, quindi aveva interesse a non avallare una enormità che generava debito pessimo e avrebbe tolto ai più per dare ai meno, per giunta i meno bisognosi. L’antitesi del draghismo.
Ma quali sarebbero state le conseguenze? Un abbandono, su quel tema, sarebbe stata la squilla che avrebbe mosso l’assalto al nostro debito. E non basta, perché era arrivato il febbraio del 2022 e quel governo seppe fare preziosi regali all’Italia: metterla alla testa di quanti chiedevano l’ingresso dell’Ucraina nell’Ue; cancellare ogni pregressa tentazione di cedimento al putinismo (eccome se ce n’erano state); guidare i grandi Paesi europei al di fuori delle loro indecisioni e titubanze (francesi e tedeschi per primi). Quello era il quadro, sicché accettare l’orrore del perpetuare lo scempio al 110% fu una scelta dolorosa, ma ragionevole. La colpa del buco, del resto, è di chi lo fa, non di chi non riesce a tapparlo.
Ma anche questa risposta manca ancora di un pezzo: perché oggi pensiamo che si perse un’occasione irripetibile? Perché Draghi, al di là delle intenzioni, non avrebbe neanche potuto veramente provare a fermare il tritasoldi? Perché la politica non è un concorso a cattedra, ammesso che il concorso si faccia seguendo il merito e la dottrina. La politica è un rapporto di forze e il governo Draghi aveva una forza debole (ovvero l’essere stato chiamato per mancanza di alternative) e una forza devastante (ovvero mollare il Parlamento allo sbando e portarlo alle elezioni). La forza debole ne dava la legittimazione iniziale, la forza devastante poteva essere usata una sola volta e ne avrebbe segnato la fine. Come avvenne.
Quindi non conta solo quanto Tizio o Caia possano essere bravi, assodato che i governi sono legittimi e sono tutti indistintamente politici quando hanno la fiducia del Parlamento, ma restano forti solo fin quando i parlamentari votano la fiducia per convenienza, oltre che, si spera, per convinzione. Detto in altre parole: se non hai una tua forza e maggioranza parlamentare non sarai meno legittimo di chi la raccolse dopo le elezioni (prima di quelle non l’ha mai avuta nessuno, in tutta la storia d’Italia), ma sarai meno forte. O più debole, ditela come vi pare.
Il che riporta al fatto che la responsabilità è nostra, degli elettori. Non si sbuca da nessuna parte fin quando non ci si rende conto che il voto va esercitato per ideale e per convenienza, possibilmente informandosi, mai per tifoseria. E se voti chi fa buchi, poi te li tieni.
Davide Giacalone, La Ragione 30 marzo 2024