La realtà s’impone sempre. Si possono raccontare bubbole, si può approfittare del non avere responsabilità per far credere d’avere soluzioni mirabolanti, ma alla fine la realtà vice sempre. In almeno tre campi la realtà impone di salire nella scala dell’integrazione europea, a maggior tutela degli interessi nazionali. Magari è scomodo fare i conti con qualche incoerenza o pregiudizio propri, ma mancare l’appuntamento con la scala reale danneggia l’Italia e porta anche una sconfitta politica di chi se ne rende responsabile. Vediamo i tre temi.
Comprensibilmente, si parla animatamente dell’immigrazione. Lo si fa da anni ma il vento è cambiato, soffia in direzione opposta e oggi nessuno che conosca civiltà e realtà nega l’obbligo di accogliere i profughi e la necessità di chiamare lavoratori da fuori. Se ne sono accorti anche i fautori delle chiusure, quando non dei deliri sulla “sostituzione etnica”. E questo è un bene. La nostra presidente del Consiglio ha scritto alla presidente della Commissione europea, chiedendo più Europa e un intervento comune. La risposta è stata positiva e articolata in quattro punti: a. i salvataggi in mare sono prioritari (cosa messa in discussione a chiacchiere ma dall’Italia sempre praticata, purtroppo non sempre in modo fortunato); b. occorre offrire ai profughi la possibilità di arrivare in sicurezza, il che significa riconoscerli subito fuori dai confini dei loro Paesi e andarli a prendere; c. per bloccare i trafficanti si devono fare interventi diplomatici, dell’Unione e non nazionali, sui Paesi di partenza; d. per gli emigranti economici devono esistere canali larghi e fluidi, talché possano arrivare regolarmente. Ha aggiunto che l’Ue mette a disposizione 500 milioni di euro per realizzare questi obiettivi (specie l’ultimo). La risposta dovrebbe essere: buona idea ma li usi direttamente, non li dia ai Paesi di arrivo; prenda per sé la competenza e la responsabilità, che gli Stati siano pronti a cedere.
Siamo arrivati al dunque della revisione del Patto di stabilità e crescita, considerato che alla fine di quest’anno cessa la sua sospensione. C’è consenso sulla proposta della Commissione ed è cosa positiva. Il succo della riforma è articolato in tre punti: 1. restano fermi i parametri, non più del 3% di deficit e 60% di debito pubblici; 2. si prende atto che i rientri automatici sono stati un fallimento, sicché la Commissione negozia le necessarie misure specifiche con ciascuno dei Paesi che non rispettano i parametri; 3. il rientro avviene in 4 o 7 anni, a seconda che sia accompagnato da riforme o investimenti. È lo schema Recovery, già sperimentato e che ha portato fortuna all’Italia.
Che il debito vada ridotto lo dice anche il governo italiano (se non lo dicesse ci avvieremmo di gran carriera alla bancarotta, per sfiducia dei prestatori di soldi); importante è che si misuri la spesa primaria netta, in modo che quella per interessi non svantaggi chi è già più indebitato. Mentre i piani di rientro su misura implicano una discussione politica, non contabile.
Dobbiamo tutti far crescere la spesa per la difesa, non per finanziare gli ucraini (che continueremo ad aiutare) ma perché la minaccia armata è alle nostre porte. In ragione di ciò abbiamo interesse a coordinare e armonizzare le spese nazionali, dando vita a una difesa europea nel quadro nella Nato. In caso contrario spenderemmo di più e saremmo meno difesi.
Tutti e tre i gradini di questa scalata al reale portano verso maggiore integrazione politica europea, perché tale sarebbe la difesa dei confini, dei bilanci (ovvero dei debiti) e della sicurezza. Portano in direzione opposta ai sovranismi, ma consentono di rendere reale e non parolaia la sovranità.
Sono occasioni per l’Unione europea, per il Paese e anche per la destra al governo. Se non fosse capace di consegnare velocemente al passato incoerenze e pregiudizi li vedrebbe in fretta ritrascinarla in quel passato. Senza che sia chiaro quale altro presente si stia preparando, per l’Italia.
Davide Giacalone, La Ragione 9 marzo 2023