Politica

Scalfaro sapeva

Gratta gratta la memoria riaffiora, sebbene a fatica. E se vogliamo chiudere la piaga apertasi fra il 1992 e il 1993 non basterà né qualche voce isolata né il lavoro dei magistrati. Occorre consapevolezza civile, culturale e politica. Da questo punto di vista il vuoto che accompagna le nostre parole è sconfortante. Ma non tale da farci passare la voglia di andare fino in fondo.

Anche perché, appunto, la memoria torna. Piano piano. Una mano la offre Gaetano Gifuni, potentissimo segretario generale della Presidenza della Repubblica, sia con Oscar Luigi Scalfaro che con Carlo Azelio Ciampi. Un uomo che ha seguito e accompagnato, favorito e assecondato le vicende italiane, ricoprendo un ruolo chiave (è stato anche capace d’interrompere la carriera d’alto funzionario del Senato per andare a fare il ministro, per poi riprenderla e continuare a crescere). Nello scorso mese di gennaio Gifuni è stato sentito, quale persona informata dei fatti, da magistrati della procura di Palermo. E qui occorre una precisazione: detesto la fuga dei verbali e aborro i processi fatti in piazza. La vita m’ha marchiato nella carne la convinzione che nessuno deve essere detto colpevole, se non condannato nell’unica sede preposta. Ma, appunto, qui non si tratta di fare il processo a nessuno, perché Gifuni dice quel che ho già scritto: Scalfaro volle Alberto Capriotti alla direzione del Dipartimento amministrazione penitenziaria. Lo nominarono, di comune accordo, Giovanni Conso, Ciampi e Scalfaro, ma quest’ultimo era l’unico a conoscerlo.

Ieri abbiamo raccontato le circostanze in cui questo avvenne. Gifuni non fa che confermare quel che già ieri descrivevamo: il governo procedette ad una nomina importantissima, essendo, di fatto, eterodiretto. Capriotti, dodici giorni dopo la nomina, suggerirà al governo di alleggerire il carcere duro per i mafiosi, quale segno distensivo.

Gifuni, uomo accorto e prudente quanti altri mai, ci aiuta molto anche grazie a quello che fatica a ricordare, o non ricorda affatto. Dice che fra Scalfaro e Nicolò Amato vi erano solo rapporti istituzionali. Nulla di significativo. In realtà il Presidente della Repubblica detestava l’allora direttore generale del Dap. Lo stesso Gifuni ce ne offre un indizio: Amato andò a chiedergli per quale motivo veniva fatto fuori, e lui poté rispondergli solo che la decisione era già stata presa. Com’è facile immaginare, non c’è nulla di normale, in ciò.

Ad un certo punto, però, la memoria di Gifuni diventa un monumento al problema, che c’incaponiamo a segnalare: no, dice, nell’immediatezza degli attentati del 1993 non s’è mai parlato del 41 bis, ovvero del carcere duro, come possibile causa, non ne fecero cenno alcuno né Scalfaro né Ciampi. Peccato, però, che l’allora ministro degli Interni, Nicola Mancino, poi vice presidente del Consiglio Superiore della Magistratura, abbia dichiarato il contrario: capii subito che le bombe erano mafiose e che dovevano mettersi in relazione con il regime carcerario. Peccato, inoltre, che lo capì il ministro della Giustizia, Conso, il quale, su suggerimento di Capriotti, voluto da Scalfaro, revocò il carcere duro per placare la mafia bombarola. Mancino e Conso erano ministri di Ciampi, e Ciampi, come correttamente Gifuni ricorda, lavorava a stretto contatto con Scalfaro. Com’è possibile che i primi due ricordino e i secondi abbiano un incolmabile vuoto?

Vediamo se riesco ad essere utile, alle memorie private e a quella collettiva: il 10 novembre del 1993 l’allora presidente della commissione bicamerale antimafia, il per nulla sprovveduto Luciano Violante, chiede lumi sulla gestione dei detenuti sottoposti a 41 bis. Domanda preveggente o gesto cautelante? Sta di fatto che pure lui, dopo, perde la memoria. Fortuna che provvide Conso, giurista anziano e servitore dritto, il quale, diciassette anni dopo, gettò fosforo nelle menti altrui: fu il governo Ciampi, nel 1993, a togliere i mafiosi dal carcere duro. Vero. Ancora uno sforzo, che la memoria comincia a tornare.

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