I “volenterosi” vanno avanti, a dispetto di chi non sa far altro che rappresentare gli europei come emarginati o perdenti. I “vorrei ma non posso” provano a star loro dietro, ma nelle retrovie. Il che comporta un danno, perché non si tratta di correre a mettere lo scarpone militare in zona di guerra (cosa che tutti eviterebbero volentieri di dovere fare), ma di evitare di ritrovarsi a scivolare nella scarpata dell’irrilevanza, non riuscendo a star seriamente né da una parte né dell’altra.
Il problema dei negoziati che si svolgono a Riad non è che non sia presente l’Unione Europea. Per certi aspetti è anche un bene. Il problema è che si tratta di negoziati fra la Russia e gli Usa, che cercano un accordo cui costringere l’Ucraina. E neanche ci riescono, perché la cedevolezza statunitense è tale da dare l’impressione a Putin di potere chiedere sempre di più. Posto che il suo regime resta in piedi e l’economia russa oramai si regge a condizione che siano in corso delle guerre. Quindi Putin è ben interessato a imbrigliare gli Usa e a farsi riaccreditare da quel criminale emarginato che è, ma non è interessato a nessuna pace stabile. Se l’Ue fosse a quel tavolo le spetterebbe il posto di frenatore e guastatore. Non avvincente. Il nostro ruolo, in questo frangente anomalo della storia occidentale, consiste nell’aiutare gli ucraini a non subire una falsa pace, che sarebbe la premessa di una peggiore guerra. Per noi assai pericolosa.
È un bene che il nostro governo sia tornato all’Eliseo, consapevole dell’iniziativa francese, meritevolmente fermo nel sostegno all’Ucraina. È un merito specifico della presidente del Consiglio, posto che una parte del suo governo si sente più a casa al Cremlino. Ma quella evidente e conosciutissima spaccatura genera delle contraddizioni. Meloni, ad esempio, ha sostenuto che, pur non facendo entrare l’Ucraina nella Nato, si può estenderle la copertura prevista dall’articolo 5, ovvero l’impegno a difenderla direttamente, in armi e scarponi sul terreno (naturalmente dopo la fine del conflitto). Dagli Usa la risposta è stata negativa, com’era abbastanza prevedibile.
A quel punto Meloni ha dovuto aggiungere che comunque gli italiani non manderanno militari in forze multinazionali, non ha aderito a quel che Francia e Regno Unito preparano e che somiglia molto alla sua originaria proposta (ma senza gli Usa, naturalmente), a meno che non ci sia un mandato Onu. Ma è contraddittorio, perché la prima cosa comprende l’ipotesi di andare a fare la guerra e la seconda di non volere sorvegliare l’ipotesi che possa ricominciare. Mentre è solare che il parlare di un corpo multinazionale – ora, in questa fase – serve a far pressione politica e non a spostare truppe sotto i bombardamenti. Ed è appena il caso di ricordare che anche con il mandato Onu si tratta pur sempre di militari pronti al conflitto, se le regole del mandato vengono da qualcuno violate. E quel qualcuno, dal 1994 a oggi, è stata solo e soltanto la Russia. Inutile girarci attorno.
Purtroppo, la prima idea era un modo per far politica estera (seria); la seconda e la sua postilla servono invece a tenersi in equilibrio fra le forze politiche del proprio governo. Che vanno in direzioni opposte.
Il piano di riarmo – perché di questo si tratta – è anche (soprattutto) un piano industriale. Senza quel salto produttivo il resto sono parole perse al vento. I tedeschi saranno quelli che spenderanno di più. I francesi sono i soli, nell’Ue, ad avere il deterrente atomico. Gli inglesi sono fuori, ma hanno il nucleare e le loro industrie. I “volenterosi” si aggregano anche su questo. Stare fra i “vorrei ma non posso” significa essere marginali non soltanto sul piano politico ma anche su quello industriale. Sarà gretto dirlo, ma è stupido far finta di non saperlo.
Non è una condizione facile. È un merito di Meloni non avere ceduto sulla difesa dell’Ucraina. Ma il trattenersi dall’essere conseguenti, condizionati dalle turbolenze interne, subordina gli interessi dell’Italia a una stabilità con scarsa operatività.
Davide Giacalone, La Ragione 29 marzo 2025
