Se esporti competenza e intraprendenza, importando clandestinità ed economia nera, il saldo non può che essere disperante. Ora che cercano di spiegarci, gli svizzeri da una parte e gli inglesi dall’altra, che i “lavoratori stranieri” siamo noi, ora che contiamo sopra il centinaio di migliaia gli italiani che, in un anno, se ne vanno, forse si può partire proprio da loro, per capire cosa succede e cosa fare. Cominciando con il cancellare il vocabolo “migranti” dallo stucchevole dizionario del politicamente corretto: è una truffa semantica, consistente nel chiamare allo stesso modo cose diverse e opposte.
Divido gli italiani che vanno all’estero in tre categorie, ciascuna delle quali, naturalmente, contiene cose e sogni diversi: 1. quelli che cercano di promuovere sé stessi, inseguendo cultura e lavoro in un mercato globale che vivono come unico; 2. quanti varcano la frontiera perché non trovano il lavoro che vorrebbero fare, o non ne trovano del tutto; 3. quelli che all’estero ci devono andare perché in Italia devono chiudere baracca e aspirazioni. Osservando questi tre gruppi s’afferra il guasto dell’avere rinunciato a governare, andando alla deriva sulle correnti che muovono da e verso l’estero.
I primi, che il cielo li benedica. La loro esistenza è segno di ricchezza e libertà, non certo di disperazione e fuga. Ovunque andranno troveranno operose comunità italiane, formatesi negli anni e originate dall’emigrazione per fame. Ne siano orgogliosi. I primi, però, pongono un problema: perché altrettanto numerosi non ne arrivano da noi? Molti cinesi, ad esempio, studiano nei nostri politecnici, ma non solo sono meno di quelli che studiano in altri Paesi europei, ma quasi nessuno si ferma per poi lavorare, riportando le competenze acquisite in patria (dove crescono università di alta qualità). Stiamo perdendo la competizione nella cultura perché continuiamo a occuparci dell’università sotto l’aspetto della corruzione e del familismo, anziché della concorrenza e della competenza. Formiamo qualità per gli altri, ma non la sfruttiamo.
Il secondo gruppo, ci pone due problemi. Siano il Paese europeo che ha la più bassa partecipazione al lavoro, eppure abbiamo gente che pur di lavorare va fuori. Come è possibile? Capita perché l’elasticità di altri mercati consente ai più giovani di fare lavori facili o temporanei, che da noi esistono solo quando sconfinano nel nero. E capita perché le pressioni burocratica e fiscale rendono inutilizzabili energie esistenti, rallentando anche la mobilità interna. In questo gruppo aggiungerei i pensionati che vanno a vivere di rendita altrove, dove lo Stato costa meno. Non solo non riusciamo a promuovere più equità (siamo i soli che ne hanno di più prima della spesa pubblica e meno dopo, roba da matti!), ma vessando e tassando distruggiamo ricchezza.
Il terzo gruppo è quello della vergogna. Un solo esempio: i ricercatori nel campo degli organismi geneticamente modificati devono andarsene via, perché l’Italia è stata condotta nel buco della superstizione, proibendo coltivazioni presenti altrove. Non teniamo affatto gli Ogm fuori dall’Italia, teniamo l’Italia fuori da quel ricco e promettente mercato.
C’è benedizione e maledizione, fra gli italiani che vanno all’estero. Ce ne è fra quanti vengono in Italia. Nel far entrare abbiamo il diritto (e il dovere) di scegliere. Verso i nostri connazionali abbiamo il dovere (e il diritto) di non consentire che siano discriminati e di non aprire il nostro mercato a chi non apre (o vuol chiudere) il proprio. Rinunciando a governare il problema non lo si cancella, ma ci si tiene il peggio buttando il meglio.
Pubblicato da Il Giornale