Politica

Schiavisti

Finiremo con l’impiccarci agli immigrati clandestini, mentre dovremmo impiccare (alla legge) i trafficanti che alle loro spalle s’arricchiscono. S’è aperto un increscioso fronte, che divide i paesi europei, laddove dovremmo chiamate tutti a far fronte comune contro gli schiavisti. Sulle rive del nord Africa rischia di naufragare l’Unione Europea, e invece dovremmo mandare a picco il commercio di carne umana. E la cosa più grave è che le indecisioni, le incomprensioni e gli errori commessi in casa nostra si riverberano oltre il Mediterraneo e arrivano come messaggi di cedimento dall’altra parte. Più la nostra mano appare tremolante, più procede spedito il lavoro delle organizzazioni criminali che diventano milionarie mandando la gente allo sbaraglio, e talora alla morte, sui barconi.

Se la comunità internazionale non fosse cieca al problema avrebbe già provveduto ad accusare i governi che consentono ciò, o le bande armate che proteggono questo commercio, di crimini contro l’umanità. Invece s’è giocato a scaricabarile, ciascuno sperando di tenere per sé i benefici dei conflitti in corso, lasciando ad altri, ed a noi italiani in particolare, le conseguenze negative, quando non orribili. Noi, del resto, abbiamo messo di nostro la giustizia che non funziona, l’apparato repressivo che fa ridere i polli, i centri d’accoglienza (che dovrebbero essere di contenimento) dai quali si va via a piacimento e, come se non bastasse, il balletto dei permessi temporanei, che nel mondo dei migranti e dei trafficanti sono suonati più o meno così: sbrigatevi a partire, perché poi può anche darsi che gli italiani si dimostreranno meno penetrabili di quanto non lo siano adesso. Difatti, le tariffe sono aumentate. Abbiamo dato una mano alla parte peggiore del mondo.

L’errore, profondo e non scusabile, sta nel fare una terribile confusione fra l’immigrazione e la clandestinità. La prima va favorita e assecondata, sia perché non se ne può fare a meno sia perché ci conviene. Ma va fatto avendo una politica in mente ed essendo capaci di scegliere chi far entrare e per fare cosa. La clandestinità, invece, deve essere combattuta senza eccezioni. Sia perché dà corpo ad un mercato immondo, nel quale si mescolano disperati, delinquenti e disgraziati, sia perché non si può avversarla a fasi alterne, perché si perde ogni credibilità e si diviene il paese nel quale entra chiunque, pertanto chiunque tenta di farlo.

Nei confronti dell’Unione Europea avevamo tutte le ragioni. Non siamo noi ad avere creato il problema, anzi, grazie alle nostre relazioni internazionali s’era assai affievolito, se non risolto. Né i confini sud dell’Italia devono essere considerati una faccenda esclusivamente nazionale, essendo i confini dell’Europa. C’è stato risposto con cecità ed egoismo, in maniera inaccettabile, sicché avevamo le carte in regola per battere i pugni, e anche i piedi. Ma l’idea dei permessi a termine, con l’intenzione evidente ed ingenua di utilizzare Shengen per far defluire i migranti verso nord, è a dir poco bislacca. Sembra concepita apposta per farci passare dalla parte del torto. Diciamo che i francesi non avrebbero osato sperare tanto, per potere meglio giustificare il loro atteggiamento.

Correggiamo subito il tiro. I numeri e la dimensione del traffico d’esseri umani sono tali da giustificare, anzi, da obbligare ad un intervento immediato e corale. Promuoviamo una scelta politica che coinvolga, immediatamente, l’Europa tutta, innanzi alla quale nessuno potrebbe far finta di non vedere. Una scelta a favore dei tanti migranti che, con l’illusione di un facile accesso nel mondo dei ricchi, vengono depredati delle loro ultime cose, compreso il possesso e la gestione del loro corpo. E su una politica di questo tipo, non sulle pezze colorate che neanche coprono i buchi, chiamiamo l’Ue a dimostrare d’esistere.

Sarà ben diverso, in quel caso, sentire governanti che parlano esplicitamente della possibilità (sia pure della mera possibilità) di sfasciare tutto e constatare il decesso di quel che, forse, neanche è mai nato. Sarebbe un terreno sul quale fare la voce grossa, senza che sembri solo un grido di dolore.

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