Politica

Sciamannati all’arrembaggio

La guerra civile è una specie di radiazione fossile, nella nostra storia repubblicana. Ha radici ancora più antiche, legate alle modalità di nascita dello Stato unitario, alla questione romana, alla pretesa estraneità, quando non avversità, della cattolicità. La radiazione attraversa i tempi e giunge ai nostri giorni, scatenando effetti diversi. Quella che abbiamo davanti agli occhi è una delle conseguenze, con un capovolgimento, però, che è bene non tacere.

Alla Repubblica giungemmo dopo una sanguinosissima guerra civile, e grazie ad accordi internazionali (Yalta), non da noi stipulati, grazie alla forza militare di potenze straniere. La Repubblica nacque generando due falsi miti: quello della Resistenza tradita e quello della Patria tradita. Il primo fu alimentato dai comunisti, il secondo dagli eredi del fascismo. Due megacretinate, ma di grande fascino. Negli anni settanta la radiazione fossile, riflessa nei falsi miti, ancora spargeva morti ammazzati, per le vie d’Italia. La cosa prese quella piega perché c’erano in giro dei fanatici e degli invasati, certo, ma anche perché erano scortati e accuditi da servizi segreti stranieri, che così giocavano la partita parallela alla guerra fredda.

La realtà di quegli anni, ed è qui che voglio arrivare, era l’opposto di quella odierna. La società era attraversata da brividi di morte, ma le istituzioni mantenevano un atteggiamento più sereno, pur essendo, naturalmente, accesi gli scontri. Non solo la sublimazione della guerra civile non divenne guerra fra le istituzioni, ma, al contrario, le rappresentanze politiche contrapposte trovarono comunemente utile usare le istituzioni per porre un freno al terrorismo. Fu in quel momento, con la legislazione d’emergenza, che prese avvio il deviazionismo giudiziario. In quanto agli italiani, avevano visto prepotentemente crescere il loro tenore di vita, poi nascere la stagione delle proteste sindacali, infine erano stati sommersi dalla spesa pubblica, quale pomata destinata a lenire i mali e sciogliere le tensioni. A quanti sdottoreggiano, circa il debito pubblico, si dovrebbe consigliare un viaggio nel tempo, non perché rinuncino alle loro critiche (io non ci rinuncio), ma affinché le rendano meno sballate.

Guardate l’Italia d’oggi: i riflessi della radiazione irraggiano le istituzioni, assai più che la società. La classe politica d’un tempo aveva (letteralmente) visto la morte in faccia, aveva imparato quali sono le conseguenze di governi deboli, di divisioni correntizie e di trasformismo, sicché, giunta davanti alle sfide della storia, non sempre fu all’altezza, ma mai perse la memoria, mai smarrì la matrice comune. La classe politica d’oggi rammenta, sì e no, lo spezzettato tornaconto personale. Le istituzioni sono divenute l’albergo ad ore per vendette della storia e arrembaggio del quotidiano. Ci sono persone che hanno speso una vita per propagandare il comunismo, e ora pretendono d’insegnare lo spirito delle istituzioni. Ce ne sono che salutavano romanamente, fuori tempo massimo, e ora scoprono un libertarismo che era stucchevole già negli anni sessanta. E c’è una massa sterminata d’analfabeti istituzionali che sono pronti a dar mazzate, pur di ricevere il proprio momento di notorietà, la propria porzione di privilegi. Le procure vanno a tre palle un soldo nel colpire gl’impotentati politici, insufflate da investigatori che porgono l’altra mano, per avere qualche cosa in cambio, così come vanno indisturbate all’insabbiamento di verità solari, adeguatamente oscurate perché coinvolgenti gente che può permettersi di regalare a tutti occhiali adeguati.

La gente guarda e non partecipa, le tifoserie sono chiassose, ma largamente minoritarie. Il corpaccione sociale tira a campare, chiedendo in cambio quel che considera un diritto: l’aumento del benessere. E’ questo, che inquieta. Perché i morsi della crisi economica cominciano a sentirsi, mentre larghe fasce sociali che vivono di trasferimenti statali sono appese a meccanismi che non è possibile rinnovare. I giovani vivono ancora in una società affluente, ma alle spalle di un welfare state che mette soldi in tasca ai loro nonni e ai loro genitori, mentre sul loro conto mette i debiti. Se, in queste condizioni, una crisi sociale s’innestasse sulla crisi economica, se alla sofferenza legata al potere d’acquisto s’unisse il dissenso generato dalla perdita di potere politico, perché si celebra il rito del voto ma si constata l’assenza di rappresentanza, chi saprà governare i conflitti?

Istituzioni devastate dall’essere state usate come clave hanno perso presa sull’Italia reale. Questo non è un problema della destra o della sinistra, della maggioranza o dell’opposizione, è un problema di tutti. Da una parte e dall’altra c’è gente in grado di capire, di sentire la delicatezza di un tale problema, la fragilità del contenitore dentro al quale ci si agita. Ma, da una parte e dall’altra, le voci della ragionevolezza sono sommerse dagli schiamazzi scomposti degli sciamannati all’ultimo arrembaggio. Lasciamo terminare questa campagna elettorale, dopo, però, occorrerà interrogarsi su come uscirne.

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