Politica

SCollegati

SCollegati

La pretesa di far scontrare il principio di legittimità democratica con quello di legittimità giurisdizionale è culturalmente assurda e politicamente suicida. Sia che si parli della riconoscibilità di un Paese sicuro, per immigrati da restituire al punto di partenza, sia che si parli di inchieste su politici. I due princìpi cantano se collegati, ma suonano a morto se scollegati. E si ritrovano collegati tutti i protagonisti della politica, mentre la loro pretesa d’essere scollegati, di approfittare l’uno delle disgrazie dell’altro, li porta assieme a soccombere. Lo vediamo in questi giorni ed è l’ennesima occasione che si dovrebbe cogliere.

La sentenza della Corte di Giustizia Ue, se la si legge con distacco e attenzione, rientra nel mondo dell’ovvio. La disputa italiana era: a chi tocca stabilire se un determinato Paese è sicuro o meno, nel rimpatriarvi una persona? Il legislatore aveva fatto il furbo (lo segnalammo subito), perché aveva avocato a sé e al governante – com’è giusto che sia – la prerogativa di stabilire con quali Paesi il proprio governo intrattiene rapporti e quali considera sicuri, ma aveva aggiunto che nel rimpatriare una determinata persona occorreva accertarsi che non corresse rischi specifici di persecuzioni o rappresaglie. E a stabilirlo – com’è giusto che sia – provvede il giudice. La risposta era già nella legge italiana. Ora si sono fatti sentenziare l’ovvio: la designazione si può ben fare con un atto legislativo, quindi politico, ma deve sempre essere possibile sottoporla al vaglio giurisdizionale. Ovvio, tanto più che fra i Paesi sicuri era stato ricompreso l’Egitto, dove un nostro connazionale è stato da poco torturato e massacrato da uomini in divisa e in condizioni di detenzione e che, a seguito di quei fatti orribili, le autorità egiziane non hanno mai voluto collaborare. Sicuro per certe cose, ma non per tutto e non per tutti.

L’enorme errore che si è commesso è stato quello di fraintendere la legittimità democratica – l’avere preso voti sufficienti per governare – con una specie di sovranità sulla legge, supponendo di poterla scrivere a piacimento e ottenerne i risultati che si desiderano anche se non si ha il coraggio di scriverci quel che si vorrebbe, salvo poi considerare il vaglio giurisdizionale come una specie di fastidioso impedimento al libero dispiegarsi della democrazia. Peccato che non esista democrazia senza Stato di diritto. Possono ben cambiare leggi e ordinamenti (che cambiano anche troppo spesso), ma quando si confonde una legittimità con l’altra e si pretende che una cancelli l’altra finiscono la democrazia e la giustizia, precipitando nell’inciviltà.

Il che ci porta in Calabria e a Milano, passando per le Marche. Il presidente della Regione Calabria s’è ribellato: avendo ricevuto un avviso di garanzia (per corruzione) e avendo capito che sarebbe stato difficile andare avanti, ha deciso di dimettersi ma anche di ricandidarsi subito. Dimissioni attive, non per andare via ma per tornare più forte. Legittimo. Ha poi detto che decideranno i calabresi. E qui si sbaglia. Gli elettori possono decidere chi eleggere – e lo avevano già fatto, eleggendo Occhiuto – ma non possono decidere se uno è onesto o ladro, perché quello spetta alla giustizia. Non soltanto sono due diverse legittimità, ma uno può anche essere eletto proprio perché ha violato la legge: vuoi perché interprete di una nobile disubbidienza civile, vuoi perché i suoi concittadini sono come lui. Ma l’essere votato non lo sottrae alla giustizia. Contrapporre il voto al verdetto è follia. Ma follia forsennata, perché lo hanno capito anche le pietre che prima vince il verdetto (anzi no: l’indagine) e poi si prende a sbaraccare la democrazia.

A Milano sono tutti presunti innocenti. Riconoscerlo non impedisce di opporsi, ma evita di trovarsi domani nelle stesse condizioni. Mentre l’idea di farsi assolvere dal proprio alleato, come il Pd alla marchigiana, dimostra che le vie della perdizione sono infinite. E nessuna innocente.

Davide Giacalone, La Ragione 2 agosto 2025

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