Si tratta di una sconfitta. Di Meloni ancor più che del governo. Ci sono delle ragioni che hanno condotto alla sconfitta. Conoscerle è importante, ma servirebbe a nulla utilizzarle come scuse. Quel che conta è il risultato. Semmai si tratta di capire se si tratta di una battaglia o di una guerra persa.
Un deficit assai più alto di quanto assicurato dallo stesso governo è certamente un problema. Il deficit più alto quest’anno comporta un debito più alto l’anno prossimo, che porta con sé maggiore spesa per interessi, vale a dire meno soldi da potersi spendere per scuole e ospedali e/o maggiore pressione fiscale. In ogni caso significa meno libertà di spesa e meno possibilità di sgravi. Come aveva correttamente osservato il ministro dell’Economia: quel che fa paura non è il rimprovero delle autorità europee, ma il prezzo che i mercati fisseranno. Il primo può risolversi in nulla, il secondo tocca pagarlo.
È una sconfitta di Meloni perché la Lega puntò a scassare tutto già in campagna elettorale, proponendo l’immediato sfondamento di bilancio, mentre Forza Italia, oscillante e acefala, pencola fra i due poli della maggioranza. Fu Meloni, in quella situazione, a porre un freno, a dire che si sarebbe sfondato soltanto in caso di recessione. E prese più del doppio dei voti degli altri due sommati assieme. Ebbene: la recessione non c’è e stiamo sfondando.
La ragione di fondo è permanente e ce la trasciniamo dietro da decenni: incapacità di comprimere la spesa corrente improduttiva e incapacità di renderla almeno più efficiente, ad esempio diminuendo le centrali di spesa. La ragione contingente è il dramma del bonus 110%, la più dissennata fra le sciagure dilapidatorie. Però, attenti: è vero che Eurostat ha scelto di contabilizzare la spesa nell’anno in cui si genera e non in quello in cui si scuce effettivamente, ma è anche vero che il freno tirato dal governo non ha funzionato – per eccesso di deroghe – con il risultato che non ci becchiamo una coltellata un solo anno, ma continueremo a trafiggerci anche il prossimo. Ciò a tacere il fatto che i governanti di oggi chiedevano ieri le proroghe della dilapidazione ideata dal secondo governo Conte.
Un tale risultato è una pessima premessa per il negoziato sul Patto di stabilità. Sicché la Francia non è soltanto una sponda con noi dialogante, ma un appiglio indispensabile. Mentre la più fessa delle cose è pensare di usare la ratifica del Meccanismo europeo di stabilità come merce negoziale, intanto perché è stato sovranamente fesso trascinare lo strazio fin qui e poi perché vedere gli infartuati minacciare la distruzione dei defibrillatori è un tale spettacolo da suggerire il ricovero in manicomio.
Le previsioni economiche sono sempre smentibili, ma è escluso si possa prescinderne: quest’anno avevamo previsto di crescere l’1% e speravamo meglio, ma si concluderà peggio; tutte le altre previsioni dicono che saremo fra i pochissimi europei che l’anno prossimo cresceranno meno di questo; mettere per iscritto il contrario per alleviare il dolore del tirare le somme no, non è neanche un palliativo. Tanto il prezzo del debito sarà dato dall’affidabilità delle scelte future. Ed è qui che si apre il bivio fra una battaglia persa e una guerra che lo diverrebbe.
Quel che conta è l’interesse dell’Italia, non la durata del governo Meloni. Il primo è inderogabile, la seconda è trascurabile. Le due cose confluiscono se chi guida il governo si mostra capace di:
- Non rimanere appiccicato alle (false) promesse fatte, ivi compresa la bubbola della flat tax;
- Non andare a rimorchio delle bizze degli alleati, come sta accadendo in campo penale e sugli immigrati. Se non ne è capace può anche durare per l’intera legislatura, guidando l’Italia in un degradarsi della condizione economica e civile.
Inutile aggiungere che l’opposizione parlamentare non è oggi un’alternativa. Che sarebbe vera se partisse dalla serietà e dalla realtà, cosa che non comincia fra chi raccoglie i voti raccontando balle, ma fra chi vota e se le dovrebbe essere rotte.
Davide Giacalone, La Ragione 28 settembre 2023