Politica

Seconda f(r)ase

Per Mario Monti la distinzione fra una prima e una seconda fase è solo una semplificazione, o, meglio, una complicazione giornalistica. L’azione del governo, dice, è una sola. “La fase due non esiste, è una trappola”, ha sostenuto Enrico Letta. Noi, che siamo dei discoli, avevamo scritto che l’idea di una seconda fase era mera illusione, perché pur essendo molte le cose utili che possiamo e dobbiamo fare nessuna di queste sarà decisiva per uscire dalla strettoia nella quale ci troviamo. Mentre invocare misure per lo sviluppo rischia d’essere una macabra ironia, visto che entriamo in un anno di recessione. Bene, vedo che su tanti ardori propagandistici comincia a far effetto la gelata dei fatti.

Se la politica fosse stata in grado di fare il proprio dovere, se le maggioranze politiche fossero state capaci di riformare e ammodernare l’Italia, non ci sarebbe un governo commissariale. Lo ricordo perché non ha molto senso che il presidente del Consiglio, su qualsiasi tema lo si solleciti, inizi rispondendo che molte difficoltà odierne sono frutto d’inadempimenti od occasioni mancate in passato. Piuttosto, provi a non complicare e rendere più confuse le cose: egli ha spiegato che i fondamentali dell’economia italiana non giustificano una così forte divaricazione degli spread, e credo abbia perfettamente ragione, ma ha anche cercato di far vedere che per effetto del suo governo tale divario sarebbe sceso. Ora, a parte la difficoltà della tesi, quotidianamente smentita, delle due l’una: o lo spread non ha a che vedere con l’affidabilità del nostro debito, ma con la cattiva salute dell’euro, oppure è un indice delle nostre colpe. Io credo la prima cosa, mi par di capire che di ciò sia convinto anche Monti, sicché ci risparmi il resto, lasciando certi esercizi alla politica politicante.

Non esistono provvedimenti specifici che possano ribaltare la realtà del 2012, con il suo segno negativo. Qualcuno si aspettava che Monti fosse capace di trovarli e illustrarli, e tanto credeva sarebbe accaduto ieri: con lo spread schizzato alle stelle palazzo Chigi aveva annunciato la riunione straordinaria del Consiglio dei ministri, poi conclusosi nel silenzio e, quindi, accrescendo l’aspettativa per la conferenza stampa di fine anno. Saranno delusi, anche se lo negheranno.

Eppure il presidente del Consiglio ha detto cose significative, fra le quali ne estraggo due, una positiva e l’altra assai meno. Ha voluto ricordare che la maggioranza che sostiene il governo non ha natura politica, ma nasce dal sommarsi di opposte impotenze (questo lo dico io), dal che deriva la necessità di riformare settori diversi nello stesso momento. Cambiare la legislazione del lavoro e liberalizzare deve essere fatto nello stesso momento, per evitare che la bilancia perda equilibrio. Era quello che sostenevamo noi, ed era il motivo per cui diffidavamo della seconda fase. Vedo che di questo c’è consapevolezza, ed è un bene. Non lo è, invece, il fatto che Monti torni e ritorni sulla necessità di rendere presentabile l’Italia (è giunto a dire che la sua stessa nomina è servita per carpire il gradimento dei tedeschi!). Questo non è un orrore di stile, ma di sostanza: l’Italia è un Paese fondatore dell’Unione europea, è una potenza economica di prima grandezza, è un sistema produttivo capace di battere i concorrenti europei nei mercati globali, è un Paese della Nato che si è sempre, coraggiosamente impegnato con le proprie truppe laddove è stato chiamato (il che testimonia anche di una grande saldezza istituzionale e civile). Detesto il nazionalismo e descriviamo costantemente i guasti italiani, ma ciò di cui abbiamo bisogno, in questo momento, è l’esatto contrario del crederci dipendenti dalla benevolenza altrui. In questo equivoco è il nocciolo della questione: non siamo noi che stiamo mettendo in crisi l’euro, sono le deficienze dell’euro che impoveriscono i nostri cittadini e le nostre imprese.

La credibilità internazionale di un Paese dipende dall’equilibrio dei suoi conti (divenuto rilevante con la globalizzazione), dalla linearità della propria politica estera, dalla lealtà alle alleanze, ma anche dalla consapevolezza e dall’orgoglio dei propri governanti.

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