Può capitare che un debitore inganni il creditore con delle promesse, come può capitare che un Paese indebitato induca il mercato a prestargli ancora soldi promettendo interventi radicali di risanamento, ma quando si tratta di quattrini, nella norma, le chiacchiere stanno a zero e contano i fatti. Per quel che specificamente riguarda gli attacchi speculativi sui debiti sovrani, in aggiunta, pensare di fugarli annunciando provvedimenti drastici e duri significa cadere nella trappola del “non è mai abbastanza”, per cui quel che viene anticipato al mattino diventa già assodato, vecchio e superato alla sera, sicché si chiede di più senza che nulla sia realmente avvenuto. Non vanno rimproverati, dunque, i governi che non annunciano, ma quelli che non fanno.
La politica degli annunci è fastidiosa quando si tratta di eventi e politiche positive, del tipo: faremo scelte per lo sviluppo del mezzogiorno, diminuiremo le tasse, faremo funzionare la giustizia. Il fatto che questo genere di annunci si trovino sulla bocca di tutti non ne diminuisce, ma ne moltiplica il fastidio. Nel corso delle campagne elettorali è normale che le forze politiche s’esercitino nelle promesse, ma il compito della stampa, se non fosse la falange faziosa che accompagna i propri beniamini, dovrebbe essere quello di conservare la memoria e fornire bilanci e resoconti. Non tutto quel che si promette si può poi fare, senza che questo significhi essere bugiardi o imbroglioni. Ma è opportuno spiegare il perché, cosa lo ha impedito, cosa è cambiato. Per quel che riguarda la pressione fiscale, ad esempio, è chiaro che le circostanze in cui ci troviamo non sono quelle ideali per la diminuzione, ma lo stesso non vale per i tagli alla spesa pubblica. Le promesse, insomma, possono non essere tutte onorate, ma vanno tutte spiegate.
La politica degli annunci è puro suicidio, invece, quando ci si trova sotto attacco, quando agli speculatori nulla basta mai. Gli annunci di rigore, nel caso italiano, sono del tutto inutili sul fronte degli spread, ovvero della differenza di tassi per potere vendere titoli del debito pubblico, perché è evidentissimo che il difetto è strutturale ed è dell’euro. Possiamo anche annunciare che rinunceremo alla cena e ci laveremo solo una volta alla settimana, subito dopo la speculazione proverà a forzare ancora la mano, ben sapendo che si possono coprire (troppo tardi e male) i debiti di Paesi come la Grecia, ma non certo quelli di un peso massimo come l’Italia. E poco importa che il nostro debito sia garantito, che la struttura produttiva sia solida e i privati poco indebitati, perché la speculazione non s’indirizza al rischio di credito, ma alla certezza che l’euro, in queste condizioni, non può reggere.
Ricordate la scenetta di Totò, che faceva Pasquale? Passava uno, lo picchiava e lo insultava, chiamandolo Pasquale. Lui non rispondeva, e alla spalla che gliene chiedeva animatamente ragione rispondeva: e che mi chiamo Pasquale? Ecco, noi non ci chiamiamo Euro, ma intanto ci stanno pestando nel suo nome.
Annunciare, quindi, non solo non serve, ma ci si ritorcerebbe contro. Agire, però, si deve. E, da questo punto di vista, è più interessante la giornata di oggi, con l’incontro fra governo e parti sociali che non quella di ieri, con un dibattito parlamentare svoltosi all’insegna delle parole scontate. Non è il nostro debito pubblico, enorme, ad avere creato gli speculatori, ma è la sua esistenza a costarci troppo. Riassorbirlo, anche togliendo i ceppi che bloccano lo sviluppo economico, quindi rinunciando a tassare e controllare tutto, in maniera maniacale, è compito nostro, non solo un obbligo europeo.
Fin qui l’euro è stato un cattivo affare per il cambio e un buon affare per i tassi d’interesse. Ora stiamo consumando il vantaggio dei bassi tassi, che riducevano il costo del debito. Ci vuol poco a capire dove porta una simile china, quali sconquassi politici provocherà, pertanto serve a nulla annunciare, semmai le cose di cui scriviamo (inutilemente) da anni vanno fatte. E in fretta.