La giornata di ieri è trascorsa all’insegna della disperazione. Il governo ha avuto la fiducia, con la maggioranza assoluta. Dire che si tratta di una maggioranza solo numerica è già segno di ubriachezza politica: i voti si contano e la somma è un numero, se, invece, s’intende dire che quella maggioranza non ha coesione politica, allora si deve aggiungere che neanche l’opposizione ce l’ha, difettandole in sovrappiù anche i voti. Questa partita si conclude senza vincitori. E con tanti sconfitti.
La maggioranza non ne esce più a pezzi di prima, ma sol perché s’era portata avanti con il lavoro. Oramai le insofferenze e i mercanteggiamenti non si nascondono più, anzi: s’esibiscono quale surrogato della politica. L’opposizione ne esce triturata, perché non solo ha preteso di denunciare una violazione costituzionale, esigendo dimissioni che non erano dovute (il Presidente della Repubblica è stato chiaro, e dovrebbero piantarla di mettergli in bocca quel che non dice), non solo s’è esibita in una bestemmia dell’Aventino, ma è stata anche messa nel sacco dalla pattuglia dei radicali. Marco Pannella resta un virtuoso, tanto pronto quanto giocoso, ma occorre aggiungere che, oramai, ha a che fare con degli incapaci. E non solo lui, naturalmente. I terzopolisti, che ancora ieri reclamavano governi di larghe intese, devono prendere atto che il clima di contrapposizione le ha stese. E loro non solo non lo hanno evitato, ma lo hanno aggravato, lasciando l’Aula.
E rieccoci qui, esattamente dove ci si trovava prima che un fritto misto fra l’agguato e l’incidente innescasse l’ennesimo voto di fiducia. Lo considero tale perché era il tentativo di far vedere che il governo stava in piedi grazie ai voti contati, che chiedevano d’essere compensati, salvo il fatto che la trappola, maneggiata con imperizia, è scattata sulle dita dei congiurati, che finendo sotto si son ritrovati a rivotare per la vita del governo. E’ andata, ma non cambia nulla. Il punto collettivamente rilevante è che il governo ha riconquistato il presente, ma non per questo il futuro, mentre l’opposizione perde il presente e, pur di non cambiare uomini e politiche, pur di restare abbarbicata a identità oramai inesistenti, compromette il proprio futuro.
Il gioco politicante s’articola attorno a un solo punto: chi gestirà le prossime elezioni politiche. Se il governo in carica non ha alternative, e non ne ha, è arduo credere che giungerà al 2013. Piuttosto si trascinerà ancora per qualche settimana, giusto il tempo perché le elezioni anticipate, nella prossima primavera, non consentano un cambio d’esecutivo. E, del resto, anche il partito democratico ha convenienza a che ciò accada: se si va in lungo si celebra il referendum, dopo di che Berlusconi sarà più forte e la sinistra più spaccata, mentre la possibilità di fare una riforma, in quelle condizioni, sarebbe nulla. Ma di questa roba s’interessano solo gli inquilini della politica, agli altri dà fastidio anche sentirne parlare.
Gli interessi del Paese sono altrove. Si trovano elencati nella lettera che la Banca Centrale Europea ha indirizzato al nostro governo. Il menù dei provvedimenti proposti è allettante, i contenuti sono gli stessi dei quali scriviamo da anni, predicando al vento. Come noi avevamo visto e scritto, il governo resta padrone del presente. Quindi, se è vero che c’è urgenza, ed è vero, tocca a questo governo provvedere. Privatizzazioni, liberalizzazioni e interventi strutturali nel campo delle pensioni e del mercato del lavoro sono i piatti di cui c’è bisogno. Subito. Il segnale che ci sia vita al governo, e non solo sopravvivenza, l’idea che si possano spezzare le resistenze corporative e le rendite di posizione che tengono prigioniera l’Italia, la sensazione che possa realmente essere premiato il merito, la percezione che dal groppone dei produttori di reddito si possano togliere i mangiapane a tradimento che campano di spesa pubblica improduttiva (e non sono solo le burocrazie intralcianti, ma anche le forniture inutili che arricchiscono industriali altrimenti falliti), il solo accendere queste fondate speranze sarebbe come mettere nel motore dello sviluppo il più potente dei propellenti: la voglia di vivere meglio, di crescere, di vincere.
Ma questo risultato mica lo si ottiene con i gargarismi su decreti, accordi, collegialità, condivisione, concertazione e così via andando fino allo scatenare le peggiori reazioni di un Paese che non ne può più. Non serve fare conferenze stampa in cui s’annuncia quel che si farà: lo si faccia. E non si abbia paura dell’impopolarità, perché se c’è una cosa oggi popolarissima è l’impopolarità di chi sappia ben fare. Gli italiani non sono fessi, e sebbene ci siano strati di viziati dalla spesa pubblica è diffusa la consapevolezza che si deve cambiare, se si vuole assicurare un futuro degno ai più giovani. Allora: i fatti. C’è pure il rischio che siano premiati.
L’alternativa non è altro che la disperazione, quella che s’è vista ieri, che aleggiava su un vaniloquio tanto rissoso quanto vuoto. La disperazione che porterà il partito del rifiuto a raccogliere la maggioranza relativa dei consensi. Quella stessa che non riesce ad opporsi ai moti plebei di chi soffia sul fuoco della rabbia. Il protrarsi di questa disperazione consegnerà il centro destra alle bande dei profittatori e il centro sinistra alle orde del giustizialismo e del massimalismo. Il governo ha il presente, lo usi. Il futuro si costruisce sulla riforma costituzionale, che restituisca dignità alla politica e forza alle istituzioni. Ma non è affare di questa legislatura.