Dopo aver ribadito che avrebbe reso ricchi gli americani, Trump fa marcia indietro e blocca i dazi per 90 giorni.
In una settimana – 7 giorni appena – i dazi vengono annunciati come storici; sostenuti come irrevocabili; per 20 minuti si lascia credere che saranno sospesi per 90 giorni; poi si smentisce che il presidente autorizzerà mai una simile cosa; quindi, il giorno appresso, si sospendono per i ventilati 3 mesi. Il bello è che Trump in persona – prima dell’annuncio che conferma quel che era stato smentito e ribalta quel che era stato annunciato – scrive via social: «Adesso è un momento grandioso per comprare!». Non so lui personalmente, ma dall’usciere ai collaboratori ci sarebbe di che indagare per insider e aggiotaggio. Se non fosse che avevano già decapitato la Sec, che dovrebbe farlo. Questa roba è costata in paura e costerà in credibilità. Non è finita, comunque finisca.
Lasciamo perdere le sparate elettorali e le assicurazioni di pace lampo per ogni dove, il fatto è che sta accadendo il contrario e i conflitti non soltanto si incrudeliscono, a partire dall’aggredita Ucraina, ma perdono prospettiva di conclusione. Avere elogiato e blandito Putin e avere assicurato a Netanyahu che poteva fare quel che credeva non s’è dimostrata un’abile premessa negoziale per giungere velocemente all’accordo, ma un indecente sbracamento ideale e un cedimento all’azzardo di chi poteva puntare al rialzo delle stragi. E questa roba dura, perché la credibilità non si ricostruisce in un attimo.
Far finta di non avere rinculato, aggravando i dazi alla Cina, non è una furba trovata per distrarre ma un ulteriore guaio. Che porterà a un ulteriore arretramento. Basta con questa bubbola che la Cina abbia approfittato subdolamente della globalizzazione, basta con tanti luoghi comuni privi di fondamento. Nulla dell’esplosione digitale guidata dagli Usa, nulla degli arricchimenti stratosferici delle società americane sarebbe mai stato possibile senza che la grande fabbrica del mondo avesse messo in mano a tutti un terminale marchiato negli Usa, nel mentre li calzava e vestiva a bassi prezzi.
La Cina ha usato il basso costo del lavoro come anche regole ambientali assai lasche, ma ha prodotto ricchezza per sé e per gli altri. I dazi per compensare gli aiuti di Stato hanno un senso, quelli per vendicare l’accumulazione di avanzi commerciali non ne hanno alcuno ed è come spararsi dalle parti che si offriva alla lingua altrui.
La concorrenza con la Cina non si fa soltanto sul costo del lavoro: si fa sulla sua disponibilità. Provate ad aprire tante nuove fabbriche negli Usa o anche in Ue, come pure in Italia: avrete il piccolo problema di non trovare chi mandarci a lavorare. Non (solo) quanto pagarli, ma chi pagare. E si fa su un terreno per noi pericolosissimo: competenza, formazione e capitale umano. Non si deve avere paura dell’operaio cinese meno pagato, ma dell’ingegnere più preparato. Mentre qui analfabeti suggestionatori passano formule taroccate a governanti occupati a prendere l’applauso di chi non ha manco capito di che si tratta. Per questo può anche fare piacere che il pallone presidenziale si sia sgonfiato, ma attenti a che non si sgonfi il nostro stesso mondo, oramai allenato a preferire i cartomanti all’élite dei ‘sapientoni’ che, come dei testoni presuntuosi, hanno anche studiato.
Davide Giacalone, La Ragione 11 aprile 2025
