La candidatura offerta da Arturo Diaconale mi sembra l’unica degna di essere presa in considerazione, anche se non credo che l’obiettivo sia quello di fare da coscienza critica a chi vincerà le elezioni.
La vittoria del centro destra, secondo me, chiude e compie un ciclo che si era aperto nel 1992. Il manipulitismo, malattia senile del giustizialismo, mosse all’assalto dei partiti politici e mise in moto la macchina dell’antipolitica. La campagna elettorale che (finalmente) fra qualche giorno si chiude è, al tempo stesso, l’apogeo dell’antipolitica e la sconfitta della proiezione politica del manipulitismo.
Il merito di questo va prima di tutto a Forza Italia, che, da figlia legittima di quelle inchieste giudiziarie, ha saputo trasportare il consenso su un terreno di maggiore compatibilità istituzionale, politica e democratica.
La grande colpa della sinistra, la colpa da cui dovrà redimersi, è quella di avere leninisticamente creduto che la spallata delle procure potesse essere fonte di legittimità. Oggi misuriamo tutta quanta la tragedia nata da quella sciagurata tesi, e la misuriamo sia in una sinistra ormai incapace d’identità se non per negazione (togliete loro Berlusconi e non resterà un solo motivo per vederli assieme), sia in un paese in cui fumano le macerie del diritto e dei diritti.
La vittoria del centro destra compie e chiude quel periodo: vince il frutto ed il nemico di quel germe antidemocratico ed antipolitico.
Dal 1994 ad oggi Forza Italia è cresciuta ed è cresciuto il suo leader, affermandosi come fenomeno politico reale, dalle ramificate radici, espressione di sentimenti e bisogni concreti. Leggere questa storia con gli occhi di chi vede solo criminalità od imbonimento è segno di scarso realismo politico e di rimbambimento ideologico.
Detto questo, però, tutti i vizi sono in agguato alle spalle e nelle carni del vincitore: dall’indeterminatezza al trasformismo; dall’opportunismo al regimetto dei mentecatti; dal conformismo alla più semplice e diffusa incapacità di concepire la politica come missione democratica. Non si tratta, allora, di far la coscienza critica, giacché questo è il ruolo che può avere una singola persona, non un gruppo. Appena esiste il gruppo ogni tanto si deve attenuare la critica e presto si passa ad annacquare la coscienza. Si tratta, credo, di stabilire se esistono (e credo che esistano) le modalità ed i valori di un pensare ed un agire laico, capace, prima di tutto, di riportare sulla scena il senso della politica, che è senso dello Stato, del diritto e dei diritti, non meno che dei doveri. Se esistono, ha ragione Roberta Tatafiore, allora si deve servirli senza complessi d’inferiorità o sottrazione, ma con la forza che deriva dalla convinzione e dalla coerenza.
L’antipolitica ci ha regalato l’avvelenata adorazione delle maggioranze, e la campagna che si conclude ha sacrificato su questo altare ogni altra identità e riconoscibilità. Noi siamo figli di una cultura di minoranza, che non ha smesso d’essere tale neanche quando ha vinto.
Non abbiamo bisogno di fare gli estremisti per metterci in evidenza, perché il nostro estremismo è la coerenza. Ecco, in questo senso abbiamo il dovere di lavorare, non essendoci estraneo il travaglio che (speriamo) squasserà la sinistra, non essendoci estraneo un esito elettorale di cui abbiamo colto per tempo la necessità, ma di cui non ci sfuggono le possibili degenerazioni.