Politica

Silenzio, parla Fini

Silenzio, parla Fini. Poi s’esibisce il Mago Kabul. Infine: tombola. Non conosco il montepremi, ma sospetto che solo il vincitore dell’estrazione riterrà memorabile questa domenica. Staremo ad ascoltare, sperando che ci sia qualche cosa da capire. Ieri, però, ha parlato Giulio Tremonti, concedendo una lunga intervista a Repubblica e prenotandone una seconda, sempre sullo stesso quotidiano, non propriamente vicino alle posizioni del governo, né frequentemente letto dai suoi sostenitori. E fa bene, Tremonti, perché si deve essere capaci di parlare oltre la cerchia degli affezionati. E’ il contenuto, però, a meritare riflessioni non tirate via.

Il giornale titola: “L’emergenza è finita”, che non è propriamente il pensiero del ministro. Ha detto una cosa diversa, anzi due: a. la manovra correttiva dei conti pubblici l’abbiamo già fatta, ed è sufficiente, ciò significa che non c’è un’emergenza contabile, non che sia arrivata la primavera economica; b. inutile scannarsi più di tanto su quale politica economica adottare, tanto queste sono cose che si decidono in Europa. Annuncia anche una nuova procedura: fin qui ciascun Pese se la vedeva con la Commissione Europea, i cui componenti aveva concorso a nominare, da ora in poi, invece, ci saranno riunioni collegiali, in cui ciascuno risponde a tutti gli altri, divise in due grandi capitoli: convergenza dei conti e predisposizione delle politiche di sviluppo. Si tratta di una novità enorme, buttata lì come se fosse una comunicazione di servizio.

Significa, intanto, che maggiore potere viene ceduto dagli Stati nazionali all’Unione Europea, la quale, però, resta priva di governo e cervello politico. La crisi economica ha indebolito i singoli Stati, rafforzando la necessità di coordinamento, ma non ha fatto nascere nuove istituzioni europee, la cui mancanza continuerà a produrre effetti negativi. E significa, inoltre, che solo con molta fantasia si può supporre che Paesi piccoli possano contestare e far cambiare le politiche dei più forti. Quindi vuol dire che alla vecchia sala chirurgica, dove operavano pochi commissari, squartando i governi uno alla volta, ma dovendo valutare il loro peso politico, si sostituisce una specie di open space operatorio, in cui ciascuno viene aperto alla presenza di tutti gli altri. A quel punto il primo parametro vitale che verrà esaminato sarà l’indebitamento, e noi siamo quelli messi (di gran lunga) peggio. Il secondo sarà il deficit, dove le cose vanno meglio, ma solo perché, al contrario di altri, abbiamo rinunciato a spendere per sostenere la ripresa. Questo palcoscenico della macelleria, insomma, non promette nulla di buono, per quel che ci riguarda.

Tremonti, giustamente, punta il dito al vero fronte ove si gioca la nostra capacità di galleggiare nei mari grandi e aperti: la produttività. Ma cade in una contraddizione, assumendo che quella sfida posa essere affrontata “con il contributo di tutti”. Molto ecumenico e benedicente, ma fuori dalla realtà. Non ricordo più quante centinaia di volte abbiamo scritto che serve un mercato del lavoro e dei capitali più aperto e meno zavorrato da protezioni e privilegi. Ricordo, invece, che quanti oggi plaudono alla realtà tedesca si ponevano su un fronte diverso, ribadendo il grande valore dei nostri ammortizzatori sociali e la grande utilità della pace sindacale (con indimenticabili inni alla “concertazione”). Errore, quelli sono i frutti nobili della nostra malattia, sono i sintomi della sua permanenza, non un incoraggiamento alla guarigione. Ebbene, come si può pensare che quelle forze, culturali prima ancora che politiche, concorrano a fare il contrario di quel che il loro corredo genetico detta? Il Paese ne ha bisogno, è vero, ma mica da oggi! Ciò non li smosse, e non li smuoverà.

Il fatto è che anche Tremonti giunge davanti al muro del pianto italiano, sul quale si danno craniate da tanto tempo: è vero che per garantire stabilità e continuità del governo non bastano le vittorie elettorali, ma servirebbe il coinvolgimento, in uno sforzo comune, di forze diverse, ma è anche vero che per allargare le basi del consenso democratico si sarebbe costretti a fare il contrario di quel che serve, sicché se ne avrebbero le conseguenze negative senza incassare quelle positive.

Faccio osservare, per tornare alla tombola di Mirabello, dove venerdì s’è consumata anche l’elezione dell’apposita miss, che il presidente del Partito Democratico, Rosy Bindi, ha appena finito di proporre una grande coalizione, comprendente anche Gianfranco Fini, ma destinata a cacciare Silvio Berlusconi. Le riforme non passano loro neanche per l’anticamera del cervello, anche perché se ne enunciano una sola già si sfascia l’incantesimo consociativo.

Per uscire da questo malefico pantano, che c’impoverisce e immiserisce tutti, dal quale non si potrà mai raccogliere la sollecitazione tremontiana ad alzare lo sguardo, perché se lo fai ti violano da tergo, occorre disinnescare la maledizione innescata diciotto anni fa: quello giudiziario non può e non deve essere uno strumento per regolare i conti politici. La sinistra è prigioniera di questa illusione, la destra è bloccata da questo terrore. Se non s’imbocca la via d’uscita da questa trappola continueremo a girare a vuoto.

Con tutto il rispetto per la potenza del Mago Kabul, sarei (felicemente) meravigliato se dal cilindro uscisse altro che la solita roba.

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