Politica

Sogno e letargo

Non è solo ingeneroso, ma anche un po’ comico accusare Giulio Tremonti di avere tradito il sogno liberale del 1994. Intanto perché siamo nel 2011, il che indica un troppo lungo sonno, benché allietato dall’attività onirica. Poi perché il ministro dell’economia ha fatto la sola cosa che era in suo potere: trattenere la spesa. Siccome la delusione c’è, ed è grande, siccome non è presente solo presso alcuni che hanno, in tutti questi anni, avuto un seggio in Parlamento, ma dilaga presso la gran parte dell’elettorato, e siccome in politica non sono ammesse ingenuità esagerate, sarà il caso di dirla tutta, senza far credere che la pattuglia liberale si sia ridestata più dal letargo che dal sogno.

In Italia la cultura democratica (intesa come conflitto d’idee e interessi, non come vaniloquio delle diversità) e del mercato non è patrimonio condiviso e diffuso. Il sogno liberale, articolato in meno tasse, meno spesa pubblica e meno Stato nel mercato non ha mai preso piede. Nella prima Repubblica era condiviso da forze minoritarie. Nella seconda sembrò incarnarsi nel centro destra, salvo il fatto che anche in questo è regolarmente finito in minoranza. Ad opera dei vecchi missini, poi dei reduci democristiani, infine accoppato dal completarsi del ciclo leghista, partito contro Roma e giunto all’amatricianizzazione pensionistica e sanitaria. Tutto ciò non ha riguardato solo la materia economica, bensì anche capitoli sensibili del diritto e del vivere civile, sicché non può essere messo sul conto di uno, ma di molti. Senza escludere il capo: Silvio Berlusconi.

Il fatto che ci se ne renda conto, sebbene tardi e male, è comunque positivo. Bene, e ora cosa si fa? Della fronda interna al centro destra nessuno sa cosa farsene, se non i pochi che, sulla base di tale posizione, torneranno a chiedere di restare dove si trovano: in Parlamento. Buon per loro, ma inutile per gli altri. La prima cosa da farsi è usare la schiettezza nel linguaggio, chiarendo che meno tasse significa anche meno welfare. Cosa che non è affatto disastrosa, ma promettente, perché il nostro vecchio welfare (come quello degli altri) è condannato a morte, per costi e disfunzioni, talché si deve pensare ad un modello diverso, qui tante volte accennato. Per seconda cosa si deve provvedere ad aprire porte e finiste delle macilente strutture partitiche, dando voce ai tanti cittadini che hanno voglia di esserci e di dire. L’Italia è piena di nuclei e fermenti, di circoli e formazioni più o meno organizzate, colme di persone che chiedono di dare e non di ricevere. Hanno un difetto: si deve prenderli sul serio e non in giro. Il terzo passo consiste nel fare politica, vale a dire nel non limitarsi alla testimonianza inutile (già fatto in questi lunghi anni, quelli del tradimento). Ciò significa scovare fra i diversi da sé quanti possono portare forza ad un’Italia che s’affranchi da corporazioni, camarille, protezioni e rendite. Ce ne sono, anche a sinistra. Non ai vertici, ma ce ne sono. Penso ai rottamatori, a quanti non hanno perso la cultura garantista, a quanti non si sono rassegnati a esistere solo in tanto in quanto oppositori di Berlusconi. La cultura liberaldemocratica è già roba per minoranze, dalle nostre parti, figuratevi se la si divide in spezzoni! Niente alleanze generiche, e meno ancora generazionali, ma lavoro serio su istruzione, mercato del lavoro, sanità, giustizia. Nessuna fregola di unirsi, ma nessuna paura di riconoscersi.

La crisi è un’occasione non ancora colta. Però, almeno, ad una cosa è servita: è chiaro che il vecchio andazzo non poteva continuare. Dirlo è un bene. Passare oltre è meglio.

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