Il nuovo governo Starmer è già al lavoro – perché in quel mondo politico ci si considera avversari, ma non nemici – e lo fa sottovoce, parlando con toni normali e razionali.
Il governo Starmer è già pronto e al lavoro. I ministri uscenti sono già tornati a casa. Il sistema inglese ingigantisce i risultati e prima di rimanere estasiati per l’esempio si deve almeno provare a capirlo. Dalla destra che propone il premierato all’inglese (ma non riuscendo neanche a copiare) alla sinistra che ora fa dei laburisti gli apripista della vittoria, molti hanno bisogno di fermarsi a ragionare. La prima cosa da tenere presente è che cambia il governo, ma non cambia la linea di politica estera, con particolare riferimento all’appoggio fornito all’Ucraina. Continuità assoluta. Non è un dettaglio, ma la consapevolezza che le forze politiche sono diverse mentre l’interesse del Regno Unito è uno solo, come la sua storia.
Punto dirimente che si capisce meglio se si guardano non solo i seggi, con la stravittoria laburista, ma i voti raccolti: il Labour ha preso il 33,7% dei voti, il 66% degli elettori hanno votato altro. Si ricordi: nel 2019 i Conservatori di Boris Johnson presero il 43,6% dei voti, ma ottennero meno seggi (pur avendo la maggioranza). Il nuovo governo è già al lavoro non perché eleggono il premier (cosa che non hanno mai fatto), ma perché contano i voti in quel modo. E quando un governo non funziona non importa più come siano stati contati i voti, ma quanto gli eletti intendano seguirlo nel fallimento. Difatti hanno cambiato più governi senza passare dalle elezioni. Affinché con il 33,7% dei voti si possa essere dominatori del Parlamento è necessario che gli altri non si mettano a dire che è in corso un colpo di Stato o che si stia creando un regime. Cosa che da noi accade puntualmente, senza che nessuno abbia un reale dominio del Parlamento.
Il nuovo governo è già al lavoro perché in quel mondo politico ci si considera avversari, ma non nemici. Il costume politico conta, come conta in Germania. Da noi abbondano scostumati e costumisti del travestimento. Ad affondare i Conservatori non è stata Brexit in sé – che pure ha dato i risultati che ci si attendeva, ovvero un danno al Paese – perché è vero che Starmer era per il Remain (ma lo era anche Cameron, allora capo del governo conservatore) ed è vero che Johnson era per Brexit, ma lo era anche Corbyn (allora capo dell’opposizione laburista). Ad affondare i Conservatori è stata la vigliaccata di non ammettere che era stato un errore e di avviare una guerra al loro interno fra chi voleva ridurre il danno e chi voleva ancora cavalcare la rottura. Hanno galoppato assieme verso il dirupo. Starmer non tornerà indietro, non c’è nessuna ipotesi di rientro del Regno Unito nell’Unione europea. Non in questi anni, almeno. Non sarebbe serio, né da parte loro né da parte nostra.
Ma il tema più rilevante, oggi, è la guerra al confine europeo: la linea politica è comune, il peso militare degli inglesi notevole, su quello si costruisce la collaborazione. Accanto a ciò si scioglieranno i nodi ancora serrati delle questioni commerciali. Con pragmatismo e reciproca convenienza. Lo si farà sottovoce, come Starmer ha condotto la sua vincente campagna elettorale. Sottovoce non significa nascondendosi, ma parlando con toni normali, razionali. Senza continuare questa oscena gara allo starnazzare, a urlare per carpire il voto di elettori più interessati alla lotta dei galletti che all’interesse nazionale. L’urlio ha così sfiancato che si premia il tono pacato. Ed è solo in questo modo che si possono raccogliere voti sperando poi di governare. I Conservatori ne raccolsero di più, ma in modo tale che governare s’è dimostrato impossibile.
Per questo Starmer dice «Prima il Paese e poi il partito», perché vuole governare e sa che il 66% non lo ha votato. Il futuro è sulle ginocchia di Giove, ma le premesse per riuscirci e farlo a lungo ci sono tutte. I tanti misirizzi delle nostre lande hanno altrettante premesse, ma di fallire dopo avere vinto. Tanto che, con un inzaccherato candore, ricorrentemente pensano che basti cambiare la Costituzione per consolidarsi dove si dissolvono.
Davide Giacalone, La Ragione 6 luglio 2024