Il risultato delle elezioni spagnole parla alla politica e alle democrazie. Se un governo (e quale) sarà possibile costituirlo o se, invece, gli elettori saranno nuovamente chiamati alle urne, è un tema spagnolo. Interessante per tutti noi, ma pur sempre spagnolo. Ma le indicazioni di quegli elettori rappresentano un filo che si dipana per l’intera Unione europea, avvolto in una spagnoletta che sarà bene non perdere.
Si è andati avanti per mesi a considerare imminente una vittoria della destra reazionaria. Una destra che è tale sul piano dei diritti individuali, ma che lo è anche nel valutare i rapporti fra il proprio Paese e l’Ue. Reazionaria perché capace di raccogliere i consensi di quanti intendono reagire negativamente sia sul piano del costume, compreso quello familiare e sessuale, sia su quello dell’integrazione europea. Quella destra, su cui aveva scommesso anche Giorgia Meloni, ha perso. Ha preso meno voti che nel 2019 e non è nelle condizioni di assicurare ai popolari, qualora lo volessero, il completamento di una maggioranza parlamentare.
Il dato decisivo – che parla a tutte le democrazie – è che, mentre il mondo della comunicazione insegue e spettacolarizza gli estremismi, la stragrande maggioranza degli elettori premia due partiti diversi e alternativi, ma pur sempre nell’area della ragionevolezza e della responsabilità: i popolari e i socialisti, di destra e sinistra, ma né reazionari né rivoluzionari. Le due famiglie che assicurano la maggioranza anche al Parlamento europeo.
Nel caso spagnolo i popolari ridiventano il partito di maggioranza relativa, mentre i socialisti, che comunque guadagnano voti e seggi dopo avere governato, diventano il secondo partito. La differenza fra loro è appena dell’1,3%, raccogliendo il consenso del 66,7% degli elettori. In una democrazia è ineludibile l’esistenza di un partito di maggioranza relativa, ma lo è anche il fatto che non ha i voti per governare da solo. Da qui in poi contano la responsabilità e la capacità politica e da qui in poi abbandoniamo i confini spagnoli per parlare di tutte le democrazie.
Certo che funzionano quando maggioranze diverse si alternano al governo, restando dentro un condiviso quadro istituzionale, ma devono funzionare anche quando gli elettori decidono di non consegnare a nessuno, in esclusiva, le chiavi del governo. A quel punto sono i protagonisti della politica che devono stabilire se chiedere agli elettori di cambiare parere o se tocca a loro cambiare il modo di operare. Noi italiani siamo stati un ottimo laboratorio: abbiamo ripetutamente spaccato la grande maggioranza dei ragionevoli e abbiamo inseguito maggioranze autonome e autosufficienti, così consegnando i ragionevoli in ostaggio agli esaltati. Lo ha fatto la destra e lo ha fatto la sinistra. Con risultati simili: incapacità di governare e governi logorati non dall’opposizione affilata, ma dagli sfregi interni alla maggioranza.
Prendere atto che nessuno ha la maggioranza per governare non significa automaticamente mettersi a governare assieme, secondo lo schema delle grandi coalizioni. Certo è meglio cambiare apertamente posizioni circa le alleanze, piuttosto che – come da noi – avviare un’orgia trasformista per tenere assieme alleanze che non hanno alcun’altra omogeneità se non quella di volere vincere. E anziché avviare l’assurda lamentazione sui “governi non eletti” (posto che non si eleggono da nessuna parte), meglio responsabilmente rispettare gli elettori: uno di noi governerà, in qualche modo, ma riconosce all’altro di avere pari forza e legittimità, ergo si collabora sulle riforme e nessuno, salvo accordo, s’azzarda a cambiare le regole istituzionali.
Davide Giacalone, La Ragione 25 luglio 2023