Politica

Squilibrio costituzionale

Si discute solo del Senato e si perde di vista la Costituzione e il finale equilibrio dei poteri. Eleggere, o meno, i senatori è irrilevante, se la Camera che fa nascere e vivere i governi è un’altra. Ed è in quella che si crea uno squilibrio pericoloso, a fronte del quale nessuna persona ragionante può essere indotta al silenzio dal timore di apparire conservatore dell’inconservabile.

I compromessi sono il sale delle democrazie parlamentari, ma i pateracchi ne sono la parodia trasformistica. Le riforme istituzionali sono importanti ed è sbagliato considerarle secondarie o supporre di poterle eternamente posporre, ma alterare gli equilibri costituzionali con modelli irrimediabilmente squilibrati è avventura che non produce stabilità, bensì fragili rigidità. E’ evidente che per Matteo Renzi la riforma del Senato è questione di bandiera, ma occhio a non issarla senza sapere se sarà nera e piratesca o bianca in segno di resa alla retorica del cambiamento.

La tabella di marcia di Renzi è chiara: approvazione della riforma, con disponibilità a compromessi che non gli neghino la possibilità di sostenere che ha tenuto duro e vinto; quindi convocazione del referendum confermativo, in modo da gestire una campagna tutta incentrata su cambiamento o conservazione; poi le elezioni politiche, per completare il disegno. Il guaio, grosso, è che dopo averla percorsa ci ritroveremo con un Senato rococò, in una esasperazione d’arzigogoli che si sovrappongono ai barocchismi: espressione delle regioni, ovvero del livello istituzionale protagonista d’insuccessi e debiti, ma abitato da senatori animali misti, con un mandato mezzo popolare e mezzo regionale. Una roba di cui si può fare a meno. Se monocameralismo ha da essere, che si cancelli il Senato.

Gliecché la monocamera sarà eletta non con un sistema elettorale maggioritario, ma con il premio di maggioranza. Una minoranza del Paese sarà in grado di dominarla, mentre le opposizioni conteranno nulla, anche perché il sistema ne favorisce la frammentazione. Questo porterà alla stabilità del governo solo a patto di trasformare quell’Aula in una accolita di automi che pigiano bottoni a comando. Più facilmente scatenerà fenomeni di nomadismo e trasformismo che, già abbondantemente in atto, faranno impallidire il fantasma di Agostino De Pretis.

Tale scempio per potere convocare gli elettori e dire loro: abbiamo cambiato l’Italia, voi, ora, volete tornare indietro? L’antipolitica, in quel modo, non viene battuta, ma surrogata a fini demagogicoplebiscitari.

Si dirà: anche nel democratico Regno Unito le minoranze elettorali diventano maggioranza di governo. Mica solo lì, in tanta parte del mondo democratico. Ma da nessuna parte questo avviene con il premio, bensì con la scelta uninominale. Tanto è vero che, ancora nella scorsa legislatura, quando la maggioranza non scatta fanno governi di coalizione. La stessa cosa, con sistema diverso, avviene in Germania. Che non mi pare un sistema instabile. Così come in Francia si è più volte sperimentata la coabitazione fra maggioranze parlamentari e presidenziali diverse, essendo entrambe frutto del voto popolare. L’Italia riformata sarebbe l’eccezione: un solo soggetto prende tutto e per forza. Non per volontà dell’elettore, ma per legge sarà consegnata la maggioranza a qualcuno. In tal modo non si conquista solo la possibilità di sapere subito chi vince, ma anche quella di cancellare l’altra faccia della moneta democratica: il bilanciamento dei poteri. Lo stesso abominio del porcellum, ma moltiplicato dall’evirazione della seconda Aula.

Rimediare si può, senza rinunciare a riformare (anche perché c’è anche la parte relativa al Titolo quinto, che rimedia alla pessima riforma voluta dalla sinistra). Solo che ciò comporta la riscrittura di parti rilevanti. Che, nell’improvvida stesura attuale, sono state votate anche da un centro destra rintronato. Si cancelli il premio di maggioranza e si adotti il maggioritario. Renzi s’oppone, perché punta alla bandiera, forte della corbelleria di avere approvato la legge elettorale prima di sapere cosa si sarebbe dovuto eleggere e cosa no. Mentre la minoranza del Pd punta a strappare un compromesso anch’esso di bandiera, più che altro per esistere e sopravvivere (illusi).

Certo che l’impotenza governativa e il bicameralismo (divenuto, perché non lo era nel testo del 1948) paritario vanno superati. Ma il sorpasso è buono se serve a raggiungere una meta sensata, altrimenti resta solo la retorica del viaggio veloce e incosciente. Il cui esisto è già stato descritto da Dino Risi.

Pubblicato da Libero

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