Questa settimana il governo deve varare il decreto sviluppo. Sarà un passaggio rivelatore. A nessuno è consentito essere così sciocco da credere che un decreto possa contenere formule magiche, capaci di far ripartire a turbo l’economia e scollarci da un regime di bassa crescita che, a parte la parentesi recessiva, dura da tre lustri. Né ha molto senso la polemica, che già si vede fra ministri, circa il “costo zero” dei provvedimenti da prendersi: chi crede che si possa spendere in deficit per sostenere la domanda non solo s’è perso qualche pagina di teoria economica, ma vive in un altro mondo. Quel che in quel decreto si dovrà leggere non è la mappa che porta a qualche nuova fonte di spesa pubblica, alimentata non si sa come, ma il tracciato attraverso il quale si possano abbattere barriere, protezioni e zavorre che imbrigliano il mercato e lo rendono asfittico.
Le mura di cinta servivano, nelle città medioevali, per difendere la popolazione durante il sonno, per proteggersi dai rischi e dagli assalti. Ma quando dentro le mura cresce la penuria il problema non è come rafforzarle, ma come uscire dal sonno e sfondare l’assedio della paura, cercando fuori le risorse per non deperire. Il nemico dell’Italia odierna è la paura. E’ il terrore di perdere privilegi e rendite che rende tutto immodificabile, salvo capire, dal punto di vista collettivo, che se non si cambia ci s’impoverisce. Il compito del governo, quindi, è quello di far bene i compiti del rigore, secondo quel che è scritto nella lettera inviataci dalla Bce (cose giuste e ovvie, qui ripetute mille volte), senza con questo azzoppare la speranza di maggiore ricchezza, che può essere alimentata con vendite, privatizzazioni e liberalizzazioni.
Faccio un esempio: è francamente ridicolo che si stia ancora a discutere delle tariffe minime amministrate dai burocrati del mondo forense, ovvero di limiti al mercato che danneggiano i giovani, non riguardano i grandi avvocati e difendono solo le rendite di chi ha banche e assicurazioni come clienti. Basta, questa commedia è durata fin troppo. Con il che, lo so già, mi sono conquistato la mia manata di mail risentite, vergate da legali che sentono minacciata la dignità della loro professione. Pazienza: noi che conduciamo da anni, anche nel loro silenzio, una battaglia per la giustizia sappiamo benissimo che il mondo funziona diversamente dall’Italia e sappiamo che quella resistenza corporativa si traduce in un costo per la collettività e un’umiliazione per il merito. Ebbene: che si veda il segno di un cambio di marcia.
Se il decreto dovesse limitarsi all’ennesima manovra correttiva (pur necessaria), se non vi si scorgesse il coraggio del futuro, allora sarà la crisi politica a chiudere la partita, facendo scattare la trappola del referendum. Funziona così: la raccolta di firme e l’ipotesi di votare sul sistema elettorale è una trappola nella quale lasciano le zampe gli stessi che l’hanno organizzata, perché il ritorno al precedente sistema non è un danno per il Pdl, mentre lo è per il centro e per le capacità aggregative della sinistra, ma se l’insipienza governativa dovesse accompagnare il galleggiamento, che evitando i voti parlamentari eviterà la crisi ravvicinata, proprio la celebrazione del referendum renderà necessario riformare il sistema elettorale, per la qual cosa occorre un tempo più lungo di quello a disposizione di questo governo. Ecco la tagliola: a quel punto diventa forte, e sostenuta, la tentazione del governo di transizione, che nascerebbe sotto diverse cattive stelle, a cominciare dal fatto che la materia elettorale non è materia governativa. L’alibi sarebbe quello del governo dei bravi e dei belli, la sostanza consisterebbe nel conciliare i tempi pensionistici di non pochi parlamentari con il bisogno di varare un sistema elettorale che offra una ciambella di salvataggio alle formazioni meno forti. Ecco lo scambio, niente affatto virtuoso.
La prima mossa spetta al governo. Se il decreto sviluppo sarà degno d’essere apprezzato e difeso, se conterrà non tutto, ma almeno l’anticipazione di quel che serve, allora l’alibi vacillerà. In caso contrario a vacillare sarà l’esecutivo, che passerà barcollando da un voto all’altro, fin quando non metterà il piede su una mina.