Politica

Tea party nostrani

Barak Obama ha perso le elezioni (di brutto) e continua a governare. Da noi il governo le vince, ma non riesce ad operare come vorrebbe e dovrebbe. In compenso i capi della maggioranza nostrana, entusiasmati dal successo americano dei Tea Party, pensano di organizzarli a loro volta. Sfugge loro un dettaglio: quei fenomeni politici nascono dal basso, dalla forza della rete, vivono nella pancia del Paese e, soprattutto, stanno all’opposizione. Forse, meno approssimazione e più ponderazione non guasterebbero.

Obama ha perso le elezioni non tanto perché non ha mantenuto le promesse (gli elettori sono abituati, in ogni parte del mondo), ma perché non ha convinto la sua gestione della crisi. Gli americani gli hanno voltato le spalle perché hanno visto i costi della sua politica, ma sono sfuggiti loro i risultati. Da noi è quasi l’opposto: la pancia del Paese continua a sostenere la parte politica che vinse le elezioni politiche, perseverando nel negare simpatie e consensi all’opposizione, ma chi siede al governo continua a credere che il problema sia la raccolta dei voti, anziché il loro uso per cambiare le cose. In questo modo il consenso diviene fine a se stesso e il motore del governo gira senza ingranare la marcia, a vuoto. Obama perde le elezioni ma conserva il diritto-dovere di governare, dovendo attrezzarsi a mediare con un Congresso che gli è, ora, ostile. In Italia il governo ha perso l’omogeneità e la forza della propria maggioranza non perché gli elettori lo hanno punito, ma perché le secessioni lo hanno amputato.

Anche il più insensibile degli osservatori vedrebbe l’enorme divario fra le due situazioni, cogliendone il succo: negli Stati Uniti c’è un sistema istituzionale che funziona (con una Costituzione assai vecchia), da noi c’è un sistema che si sfarina (con una Costituzione giovane). Il compito di una classe dirigente, che voglia essere degna di questo nome, è quello di porre mano alle riforme costituzionali, non certo quello di continuare in eterno a litigare nel più vicino cortile. Anziché organizzare la versione casereccia dei Tea Party, dunque, si dovrebbe cominciare a capire che la politica non è l’arte d’essere eletti, ma quella di riuscire, da eletti, a dare un senso all’essere stati votati. Insomma, è ora di tornare alla politica. Quella vera.

Un Tea Party organizzato dall’apposita propagandista del capo, magari con il contributo dei suoi soldi, non solo non è la stessa cosa, ma va a finire che qualcuno ricorderà il perché quei raduni s’ispirano alla bevanda d’origine cinese: perché nella Boston del 1773 il Tea era una questione fiscale, e la rivolta contro l’erario innescò la rivoluzione americana. Non nego che anche in Italia meriterebbe porre mano ad una rivolta fiscale, vista il taglieggiamento cui siamo sottoposti, l’alta evasione e il modo dissennato con cui si spendono i soldi, ma dubito fortemente che possa essere fatto dalla stanze del governo.

Vediamo bene che la legislatura boccheggia e sappiamo che si stanno appostando le batterie per la propaganda elettorale, ma non è possibile che tutti s’atteggino ad essere opposizione, anche quelli che stanno al governo, e non da poche ore. In una democrazia funzionante anche chi è stato minoranza si presenta alle elezioni con un programma in positivo, non solo rivendicando il valore del proprio essere stati contro il governo. Figuriamoci chi al governo c’è stato. Il guaio, mortale, della nostra sinistra è di unificarsi solo nell’essere contro Silvio Berlusconi. Ma il dramma della maggioranza è quello di considerarsi opposizione dei propri stessi governi. Insomma: a chi tocca fare le riforme istituzionali, fiscali e strutturali? Alla maggioranza. Rivolgendosi al Parlamento il presidente del Consiglio ha promesso cinque iniziative tematiche, cinque impianti riformatori. Proceda. Solo in quel modo gli italiani potranno valutare nel merito e soppesare anche i guasti di un sistema in cui nessuno è in grado di governare. Tocca a lui, e a quel che resta della sua maggioranza, onorare il voto degli italiani e concentrarsi sulle cose da farsi. Se l’esito sarà infausto, su quello chiederà ancora il voto.

Proprio per questo, però, deve essere capace di alzare il tiro, di sottrarsi alla normale amministrazione e disegnare un sistema istituzionale diverso. La seconda Repubblica merita l’eutanasia, mentre noi tutti non meritiamo la sua fin troppo lunga agonia. Agendo in questo modo, inoltre, sfiderebbe l’opposizione su un terreno nobile e interessante, sottraendosi al quale la sinistra risulterebbe ancora meno affidabile di quel che è. Viceversa, se l’opposizione fosse capace di fare politica, se per indebolire e battere chi governa non s’affidasse a materia postribolare, il sistema politico ne guadagnerebbe in dignità e concretezza, smettendo si sembrare un pollaio in cui anche i galli sono dei travestiti.

Un Paese in cui tutti sono “contro” è destinato a massacrarsi con le proprie mani. Un esercizio nel quale ci si è a lungo impegnati, e che sarebbe ora d’abbandonare.

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