Politica

Telecom, il ricatto

Benvenuti nel regno del ricatto, i vostri peggiori incubi vanno a realizzarsi, nel disfacimento della giustizia italiana. Non intendo qui raccontare, ancora una volta, le faccende di Telecom Italia, perché lo abbiamo fatto già molte volte. Nessuno ha potuto smentirci e men che meno querelarci. Me ne servirò, invece, per mostrare a quale livello siamo scesi.
I giornali sono a gran rumore per due clamorose novità: a. il deposito degli atti dell’inchiesta sugli spioni, oramai conclusa; b. le dichiarazioni rese, a Repubblica, da uno dei protagonisti. Vorrei osservare che nessuna delle due cose contiene alcuna novità (salvo i depistaggi, ci arrivo dopo), perché: 1. l’inchiesta penale si conclude esattamente dove è cominciata, nulla di più e nulla di meno; 2. quello stesso protagonista, nel corso dei tre anni e mezzo che l’inchiesta è durata (per giungere faticosamente al suo punto di partenza), ha, alternativamente, sostenuto d’avere agito di testa propria o di averlo fatto su ordine dei superiori e riferendo loro i risultati del proprio lavoro. Le novità, dunque, non ci sono.
E, allora, di che stiamo parlando? Semplice: da una parte c’è la voglia matta di far credere che la storia sia finita qui, mentre manca non solo la sentenza, ma anche solo il processo; dall’altra c’è la fifa boia che salti tutto in aria. Seguitemi.
Secondo la procura che ha indagato si era creato, in Telecom, un gruppo dedito allo spionaggio e ad altri reati, ma tale gruppo non agiva su mandato e nell’interesse dei vertici, bensì di testa propria ed al solo scopo di arricchirsi. E’ vero che le due società pagatrici, Pirelli e Telecom, sono chiamate a risponderne, ma solo perché non avrebbero vigilato abbastanza, mentre per il lato relativo alla fatturazione di servizi non richiesti le stesse sono parti lese e si costituiranno in giudizio. Splendido. Ma c’è un problema: già il giudice dell’indagine preliminare aveva rimproverato, per ben due volte, l’illogicità di tale impostazione, perché risultava a lui evidente che i vertici delle società avevano scelto quegli uomini, avevano dato loro quella funzione e che tutto, o quasi, era stato fatto nell’interesse, benché stortamente inteso, delle società. Non si tratta del “non potevano non sapere”, d’infelice e forcaiola memoria, ma del più concreto: sono stati loro a volerlo. Ora, dunque, prendere quelle conclusioni come oro colato, considerarle verità processuale, ancor prima che il giudice dell’udienza preliminare dica la sua è sospettosamente frettoloso. Magari è proprio così, ma aspettiamo.
In quanto alle parole di Tavaroli, capo della sicurezza prima in Pirelli e poi in Telecom, uomo di fiducia di Tronchetti Provera, forse andrebbero valutate con maggiore rispetto per la persona. Non è scemo.
Egli ha, nei limiti del possibile, difeso per anni, ed in condizioni difficili, Tronchetti Provera, per poi mollarlo ed accusarlo nel momento in cui non succede un accidente. Ma vi pare logico? Lo so, tutti pensano che si aspettava la riconoscenza e forse non c’è stata. Ma non sta in piedi: se non ci fosse stata avrebbe potuto avvedersene assai prima, quando ancora le indagini erano in corso, e se ancora volesse reclamarla non è certo con un’intervista in due puntate che può propiziarla. Vedo, inoltre, che nessuno ha voluto rilevare un fatto: Tronchetti Provera, esplicitamente accusato d’essere il mandante e di avere conti segreti all’estero, se l’è presa con il clima e le campagne, ma non ha detto una parola sul suo ex uomo di fiducia. Casuale?
Tavaroli ha detto che le prove si formano al processo e non dipendono dalle cose che si sono dette prima. Naturalmente è vero, e tutti ci hanno letto la minaccia di dire lì quel che oggi dice ad un giornalista. Potrebbe essere vero il contrario: non dirà lì quel che oggi la procura non può far finta di non avere letto. Sempre ammesso che un processo si faccia, almeno in questo secolo.
Infine, la bomba, l’unica vera novità: Colaninno pagò una tangente al partito dell’allora presidente del consiglio, Massimo D’Alema, ed i soldi sono finiti in un conto londinese le cui firme di traenza erano di Fassino e Rossi. Direi che si tratta di una bubbola colossale, alla Igor Marini, per capirci ed intenderci. Ma velenosa, perché l’Oak Found esisteva sul serio, era veramente amministrato da Magnoni, ed effettivamente, ancora oggi, non sappiamo chi ci fosse dentro. D’Alema favorì Colaninno veramente, mica per fantasia. Questa è una storia che ho raccontato nel 2003, ed è vera. Il resto, invece, è depistaggio allo stato puro. Perché? Non lo so e preferisco non immaginarlo. Se arrivassero altre notizie, relative a tangenti pagate, che riguardassero quel settore del quadrante politico ma non quelle persone, magari tornerà utile aver fatto vedere che c’è in giro un sacco di gente che straparla. Oppure, se da quella parte del mondo politico qualcuno volesse, oggi, ostacolare i disegni di chi ebbe in mano quelle informazioni, stia attento e faccia i conti con il proprio armadio, perché ci può essere chi è disposto a raccontare quanto basta. In ogni caso la giustizia latita e si muove con lentezza esasperante, quindi la minaccia diffamatoria va a segno anni prima di un eventuale rimedio.
Ecco perché vi ho dato il benvenuto nel regno del ricatto e del linguaggio oscuro. Ci siamo fino al collo, e non intendo minimamente collaborare partecipando alla rissa. Quel che si doveva sapere lo abbiamo raccontato assai per tempo, se, dopo anni, la giustizia sta ancora a zero il problema è di tutti, e neanche limitato alle faccende Telecom, ovviamente. Il nostro è un Paese che ha perso gli anticorpi, dove la giustizia è morta, ed il puzzo di marcio è terribile. Aggiungo: comincia ad essere rischioso dirlo, perché ieri mi trovai gli spioni in casa, con annessa operazione diffamatoria, oggi vedo falangi festanti che non intendono lasciarsi infastidire da considerazioni così banalmente civili.

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