Politica

Telefono cassa

Le tasse che tartassano rispondono a una legge: più le mandi su e più ti buttano giù. Non solo perché hanno effetti depressivi, ma anche perché le si aggira. Così da una parte cresce quel che si dovrebbe pagare e dall’altra scende quel che lo Stato incassa. Esempio: le tasse sui telefoni cellulari e i tablet. Leggo che il ministro della cultura, Dario Franceschini, starebbe studiando l’ipotesi di farla crescere. Sarebbe un provvedimento vagamente contraddittorio con l’idea di digitalizzare l’Italia. Una specie di balzello sul progresso. Ma visto che sta studiando suggerisco che osservi quel che già capita, in quel settore, e si faccia raccontare di quanto il gettito crolla e crollerà.

Sulle sim, quelle carte, sempre più piccole, che contengono la nostra identità telefonica, grava già una tassa di concessione governativa. Una cosa grottesca, introdotta perché i telefoni cellulari erano considerati beni di lusso, e che riguarda solo chi ha un abbonamento, ma non chi ha carte ricaricabili. L’ammontare della tassa, mensilmente, è di 5.16 euro per i singoli e 12.91 per i contratti aziendali (nel qual caso è scaricabile all’80%). Sulla tassa si mette anche l’iva. In questo modo il fisco ha distorto il mercato, sicché l’Italia, che nella telefonia cellulare fu mercato all’avanguardia, è anche il Paese con più ricaricabili. Distorcendo il mercato, come sempre, ha danneggiato il consumatore, perché il traffico ricaricato era più costoso di quello per gli abbonati e le compagnie telefoniche potevano permettersi tale prelievo eccessivo proprio perché non gravato da tassa di concessione. Ora, però, con il livellamento verso il basso delle tariffe e il diffondersi di quelle flat (paghi un fisso e puoi consumare il pattuito, sia in voce che in dati), la frittata s’è girata: per grattare margini le compagnie propongono alle aziende di trasformare le loro sim da abbonamenti in prepagate, chiedendo qualche euro in più, ma assicurando uno sconto di 25 euro a bimestre. Morale: il gettito cadrà, la tassa viene aggirata, ma i consumatori pagano sempre qualche cosa in più per il solo fatto che esiste e consente di parametrare la convenienza verso un livello più alto. Un preclaro esempio di scempiaggine.

Già un paio di giudici tributari hanno considerato illegittima quella tassa, ma i governi, sempre alla disperata ricerca di gettito, hanno fatto orecchi da mercante. Invece di cancellarla del tutto, come si dovrebbe, provano a traslocarla dalla carta al terminale. Una specie di canone Rai, che picchia sui televisori. Solo che creerà le stesse distorsioni: se metto la sim in un diffusore wi-fi e mi connetto con il computer (con il quale posso anche telefonare) pago o no? Io dico di no. Ma questo è il Paese in cui volevano i soldi del canore Rai perché il mio computer è “atto o adattabile” a ricevere immagini televisive. E li volevano da tabaccai e ricevitorie perché ci sono teleschermi per il “10 e lotto”. Un’olimpiade dell’arretratezza tecnologica e dell’arroganza fiscale.

Dal digitale si può trarre molta ricchezza, ma non tassandolo, bensì diffondendolo. Deve trovarsi nelle scuole, nella sanità, nei tribunali, nei musei. Deve non affiancare, ma sostituire il vecchio, cambiando procedure e burocrazie. Supporre di tassarlo maggiormente è l’esatto opposto di quel che serve. Tassare creerà costi e farà perdere risparmi. Il guaio dei sacerdoti del satanismo fiscale è che non pagano neanche la loro bolletta, messa in conto al contribuente, altrimenti queste cose le saprebbero.

Pubblicato da Libero

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