C’è una cosa che, questa mattina, il presidente del Consiglio proprio non può dire: andiamo avanti pur di non andare alle urne. Lo ha sostenuto Umberto Bossi, domenica scorsa, nella convinzione che elezioni ravvicinate consegnino la vittoria alla sinistra. Se è questo che lo tiene in piedi, allora è già oltre la soglia dell’irrimediabile. Silvio Berlusconi, appunto, non può attestarsi su una simile linea. Le difficoltà sono evidenti, l’umore degli italiani a lui sfavorevole, ma non per questo Palazzo Chigi può essere pensato come un tetto sotto cui ripararsi. Egli, allora, farebbe bene a dire il contrario: o il governo riesce a lavorare, o il Parlamento lo assiste in questo sforzo, oppure è meglio interrompere la legislatura. Che già, forse, è durata più del possibile.
C’è un punto, poi, nel quale questioni politiche e istituzionali s’intrecciano, determinando la sorte dell’esecutivo. Su quel punto Berlusconi deve far conoscere la sua posizione. E’ noto che l’attuale maggioranza non è quella uscita dalle urne, nel 2008, quella che prese il premio avendo raccolto la maggioranza relativa dei consensi. La scissione finiana l’ha spezzata. Il ribaltone, programmato per il 14 dicembre scorso, non è riuscito. L’assalto è andato a vuoto, anche grazie all’arruolamento di alcuni fanti, promossi ufficiali, provenienti dall’opposizione e non esattamente inquadrabili nella poco affollata schiera degli idealisti. Il punto è questo: se s’intende come maggioranza elettorale quella complessivamente espressa verso il centro destra, quindi composta da tutti gli eletti, codesta che oggi sostiene il governo non è la medesima voluta dagli elettori, ma se, invece, si considera maggioranza quella che si raccoglie attorno alla presidenza Berlusconi, così com’era indicata nella scheda elettorale e nel simbolo della coalizione, ne deriva che al governo siede esattamente chi ci fu spedito dagli elettori. Ci sono argomenti che possono militare per l’una o per l’altra tesi, di sicuro è evidentissima l’insanabile inconciliabilità fra il modo in cui si vota e quello in cui si formano e sopravvivono i governi. Ma quel che conta, oggi, è che se Berlusconi vuol sostenere la seconda tesi (essendo inverosimile il contrario, giacché dovrebbe dimettersi) allora deve chiamare su di sé il merito di avere costituito il governo, la responsabilità della sconfitta elettorale e rivendicare la paternità di ogni scelta governativa, passata e futura.
Non si tratta di ridare vita all’intramontabile motto: ghe pens mi. Si deve, piuttosto, comprendere la natura della sfida, tutta incentrata sulla sopravvivenza, o meno, di una formula maggioritaria e bipolare che non può continuare a sfarinarsi, come in tutti questi anni è sempre avvenuto, nella macina delle componenti, delle correnti e dei personalismi. Non si può sostenere oltre la tesi: avrei voluto farlo ma me lo hanno impedito. Non potrebbe più sostenerlo Romano Prodi, a sinistra, così come non può sostenerlo Berlusconi. Intendiamoci, c’è del vero, e neanche poco, ma se ci si fa scudo di questa tesi vuol dire che ha miseramente fallito sia il bipolarismo che il maggioritario. O, meglio, che ha fallito quella roba che, con non poca fantasia, s’è voluta definire maggioritaria e bipolare.
In quanto alle elezioni, la botta che il centro destra ha subito è così forte da annebbiare loro le idee. E’ vero che l’onda della rabbia schiumante, sospinta dalla marea della delusione e agitata dalla condotta sfacciatamente arrogante di certi ministri e maggiorenti, non s’è ancora infranta ed è temibile, ma è anche vero che elezioni ravvicinate sarebbero un inferno per la sinistra, con il Pd destinato a vedere crescere i suoi avversari diretti, fino a vedere tornare in parlamento gli incursori di Rifondazione Comunista, ieri seguaci del cachemire bertinottiano, oggi affiliati all’orecchino vendoliano. Una sinistra di questo tipo ha la vittoria in tasca solo se la destra si radicalizza, o si butta disperata su cubiche scemenze, come quelle dei ministeri al nord (come generose minchionerie sono quelle del governatore laziale e del sindaco romano, afflitti per l’ipotetica perdita di ciò che i loro cittadini darebbero via con incontenibile gioia).
La partita, insomma, è ancora da giocarsi. Il discorso di Berlusconi al Parlamento, questa mattina, fischia l’inizio del primo tempo supplementare. Il punteggio, fin qui, non è entusiasmante. Per nessuno.