Politica

Toro, l’ipotesi peggiore

Achille Toro si dimette dall’ordine giudiziario, non è più un magistrato. Lo ha fatto, dice lui, per potersi difendere meglio. Il primo effetto, però, è quello di non doversi difendere dal procedimento disciplinare. E’ in magistratura da quaranta anni, alla procura di Roma aveva la delega alle indagini sulla pubblica amministrazione (quando si dice l’ironia della sorte), non è uno sprovveduto, eppure pochi giorni fa aveva dichiarato: non mi dimetterò.

E’ accusato, nell’ambito dell’inchiesta fiorentina sui lavori per il G8, la stessa che occupa la scena da giorni e ha coinvolto la protezione civile, di avere rivelato segreti d’ufficio. In pratica non lui, ma il figlio (a sua volta indagato per favoreggiamento), ha parlato con l’avvocato di uno degli indagati, il quale lo ha incaricato di “monitorare” la situazione. Toro si è difeso sostenendo che né lui né suo figlio conoscono direttamente l’indagato, ma dalle intercettazioni telefoniche risulta che quell’avvocato gli aveva fatto un regalo di Natale e che il procuratore gli aveva detto di andarlo a trovare. Ancora una volta, quindi, al di là di circostanze specifiche e degli eventuali reati, da accertare, quel che emerge è la realtà osmotica degli uffici giudiziari.

Lo spettacolo è complessivamente poco edificante, per almeno tre ragioni. La prima: Toro, come altri magistrati prima di lui, utilizza le dimissioni come strumento per interrompere un procedimento, laddove, forse, se non si ha nulla da temere, sarebbe più congruo chiedere una sospensione, o un’assegnazione ad altri incarichi. La seconda: è già accaduto che magistrati della procura di Roma siano finiti nelle inchieste di colleghi di altre procure, come se nella capitale vi sia la stabilità della contaminazione fra affari, politica e giustizia. Un sospetto, già da solo, devastante. La terza: molti colleghi sono corsi a manifestargli solidarietà, il che è ammirevole sul piano umano, ma poco confortante su quello giudiziario, proprio perché da quegli uffici si sostiene e ribadisce che della giustizia ci si deve fidare, abbandonandosi collaborativi nelle mani degli inquirenti.

Vale per Toro, come per tutti gli indagati, la presunzione d’innocenza. Egli dice di volere difendere il proprio onore, e noi tutti speriamo che ci riesca, come lo speriamo per ogni presunto innocente. Ma l’inchiesta fiorentina pone un non prescindibile problema relativo all’onore delle istituzioni, perché dopo avere descritto la protezione civile come una banda di ladri e un magistrato come un loro complice, sono possibili tre sole soluzioni: a. l’inchiesta risulta fondata, dalle indagini si passa al processo e da questo alle condanne; b. oppure si dimostra che la montagna d’intercettazioni telefoniche non partorisce neanche un sorcetto di reati provabili; c. o, infine, tutto si perde nelle nebbie dei tempi lunghi, affogando nelle sabbie mobili delle prescrizioni. Quale sia l’ipotesi migliore non saprei dire, so che la terza è la più frequente, nonché la peggiore.

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