Politica

Torta Sarkel

La torta Sarkel ha effetti bizzarri, finendo direttamente sulla faccia dei pasticceri. I quali hanno cercato di collaborare fra di loro, mettendo assieme la forza del sistema produttivo tedesco con il peso francese nella politica estera, nel tentativo di far credere ai propri elettori che qualcosa hanno in testa e, quindi, nella speranza di cavarsela entrambe alle elezioni. Purtroppo è riuscita male, e se al primo boccone si sente l’inutile asprezza dei miti germanici, già al secondo il palato si torce nel gusto libico di una grandeur senza grandezza. La regola era chiara ai fondatori, comprendendo fra questi quelli che hanno dato vita all’euro e favorito (pagando) la riunificazione tedesca: ciascun Paese si sarebbe dovuto sentire europeo, senza che l’Europa divenisse dominio di nessuno di essi. I discendenti odierni, compresi Sarkozy e Merkel, i pasticceri Sarkel, non lo ricordano, o non lo sanno. Comunque non lo capiscono.

Ai due tortaroli s’aggiunge il capo sala, quel Van Rompuy che corre ad allinearsi alla cucina, nel mentre allaccia la farfalla di servizio, smentendo un commissario europeo che aveva saggiamente aperto agli eurobond. Così dimostrando che anche senza elezioni e senza partiti comunque si riesce ad avere le idee confuse e contraddittorie. Proprio mentre servirebbe autonomia e mano ferma il capo del presunto governo europeo caracolla con sul vassoio la birra e il pastis che debordano. Questo gli hanno ordinato, per valorizzare la Sarkel.

E sì che la realtà impartisce lezioni chiare: i francesi hanno un debito pubblico nettamente al di sopra del consentito e un deficit più alto del nostro, hanno bruciato palate di quattrini per salvare le loro banche, il cui valore è drasticamente diminuito; i tedeschi hanno numeri più presentabili, ma un debito aggregato pari al nostro, un sistema produttivo che rallenta e si ferma, e banche terribilmente esposte con i debiti pubblici di quegli stessi Paesi che l’egoismo elettorale impedisce di federalizzare. Esposizione che, sia chiaro, non è frutto della generosità teutonica, ma della sana avidità che ha spinto ad acquistare titoli non meno sicuri dei tedeschi, ma assai più remunerativi. Ecco perché, giunti al bivio, la signora cancelliere s’è opposta al default greco, che avrebbe avuto il pregio della chiarezza e il difetto di spezzare le gambe alle sue banche, ma s’è opposta anche a salvataggi stabili, per non dare l’impressione ad Hans di star pagando la feta di Alekos, mentre, in realtà, è Alekos, con i suoi figli, che, per molti anni, dovrebbe contribuire a comprare i crauti di Hans. Se non fosse che Alekos produce poco e spende un sacco, quindi non ci crede nessuno e non ci credono i mercati, che prendono le parole della premiata ditta Sarkel come refolo d’inutilità.

Oltre tutto i due, che sono più candidati che non già presidenti e cancellieri, cadono anche in contraddizione. Al termine del loro incontro dissero che si doveva trovare il modo di dare stabilità al governo europeo, ma non appena un commissario ha detto quel che pare ovvio a chiunque ragioni, ovvero che si devono emettere eurobond e federalizzare il debito, si sono premurati di dargli addosso, scatenando il caposala e dimostrando quel che volevano effettivamente dire: lavoriamo all’Europa francotedesca. Non si può, non si farà e non funzionerà. L’Europa germanizzata e francesizzata non esiste. Scoppia. Si dissolve. Al contrario una Francia e una Germania europee restano due nazioni potenti e capaci di guidare l’Unione. Non è affatto la stessa cosa.

In tempi di tempesta torna vero quel che abbiamo scritto qualche centinaio di volte, ma in tempi di tale bonaccia da indurre l’equipaggio alla pennica: non può esistere una moneta comune senza una politica comune, che non si riesce ad avere senza un Parlamento e un governo espressione della volontà popolare. L’Ue non è in crisi di troppa politica, ma di troppo poca democrazia reale. Difetto cui non si rimedia con le tecnocrazie, neanche bancarie. La Bce non sarà mai un ministero dell’economia, perché al massimo potrà essere quello del fisco. E vi lascio immaginare che fine fa un governo esattore e non governante.

Da ultimo, per metterci una pezza, si sono inventati la necessità d’inserire nelle costituzioni nazionali l’obbligo del pareggio di bilancio. Grottesco: non essendo riusciti a fare la Costituzione europea si decide di violentare quelle nazionali. Paradossale: come se non fosse stata istruttiva la scena statunitense, con un governo che ha rischiato il default sol perché una norma impedisce di far crescere il debito, salvo scamparlo non per le riforme, ma per un voto che autorizza a spendere. Come se il problema dei debiti sovrani si risolvesse con la tecnica di Ulisse: marinai con le orecchie tappate e capitano legato al palo, sicché le sirene possono cantare inoffensive. Spendere in deficit è oggi pericolosissimo, lo si è fatto troppo ed in modo dissennato, ma può essere utile. Costituzionalizzare la sua incostituzionalità non serve a un piffero.

L’Europa si riprenderà, ne sono sicuro. Le sfide della storia sono dolorose, ma salutari. Un giorno, spero il più presto possibile, scopriremo che una classe dirigente alternativa c’era, in Europa e in Italia. So dove non ha senso cercarla: fra i politici preoccupati solo di vincere le elezioni e fra i banchieri che guidano loro la mano, essendo di loro ancor più ciechi.

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