Politica

Trappola sinistra

Il Partito democratico è finito nella trappola che ha accuratamente e lungamente costruito. Ora si dimena, con il risultato di serrare i nodi che lo strangolano. La trappola nasce da un’illusione diffusa dall’avversario: Silvio Berlusconi cercò di far credere agli elettori che votando il suo partito lo nominavano direttamente alla guida del governo. Naturalmente non era vero, perché la Costituzione è, sul punto, ancora quella del 1948, eppure una quota di suoi sostenitori ci credette. La cosa paradossale è che ci credette tutta la sinistra. Essendo allocchi, ma sentendosi furbissimi, elaborarono complicati sistemi per dire: è vero quello che dice Silvio, credetegli, ma solo noi siamo così bravini e buonini da far scegliere agli altri i candidati (senza che sia mai stato vero, se non per le elezioni locali, dove, difatti, i candidati Pd perdevano in serie). Teoria e tecnica dell’autodistruzione. Ora si ritrovano con una missione da compiere: riuscire a eliminare il solo in grado di vincere le elezioni. Dal canto suo lo stesso Matteo Renzi s’è messo a collaborare con la propria distruzione. Gli uni e gli altri praticando il divorzio fra linea politica ed equilibrismi interni al partito.

Renzi, il giorno dopo le elezioni di febbraio, aveva la stessa opinione che qui cercavamo di spiegare. Nulla di originale, né per lui né per noi, ma pur sempre l’opposto di quel che diceva il Pd: l’unica maggioranza possibile è quella che vede alleati il Pd e il Pdl. Andò così, e, per sovrappiù, si aggregarono anche i montiani (che poi montiani non sono, dato che nel giro di qualche settimana scoprirono d’essere assai diversi fra loro: una sola lista, ma infinite scelte, non si sa se civiche). Dopo la nascita del governo Letta è successo quel che succede ricorrentemente, nella storia di questa sinistra: dopo avere avversato una cosa non solo vi partecipano, ma pretendono d’esserne gli unici interpreti e difensori. Così il Pd di Guglielmo Epifani s’è messo i panni del lettiano a oltranza e, quindi, per mero equilibrismo interno, il Renzi che lo fu ancor prima di Letta ne divenne critico. Come noi, del resto, perché era ed è vero che non c’era altra maggioranza possibile, ma non per questo è possibile accettare che si vada avanti nel nulla e nulla combinando.

Ribaltate le posizioni, i democratici sono passati a ribaltare la logia. Ora, con tutta la buona volontà, chi credete che debba eleggerlo il segretario di un partito, se non gli iscritti a quel partito? Al più con la collaborazione dei movimenti collaterali. Ma i renziani sostengono il contrario, evidentemente convinti d’essere più forti fra i non democratici (intesi come iscritti al partito). Il che è vero, ma è esattamente per questa ragione che sostenemmo, prima delle scorse elezioni politiche, che se Renzi non avesse messo in conto la rottura (e non la mise), avrebbe fatto la fine di Mario Segni: da dominus dei consensi a soggetto marginale.

Incaponirsi a volere far votare i passanti, invece, significa far confusione fra le nomine di partito e le indicazioni elettorali. Posto che non si vota per il presidente del consiglio, riportando tutti alla casella numero uno: l’illusione berlusconiana. Già, dice Renzi, ma non ciurliamo nel manico: il prossimo segretario sarà anche il prossimo candidato alla guida del governo. E qui siamo nel caos più totale, sia perché ci si ricolloca in quella disgraziata casella numero uno, sia perché l’identità fra segretario e capo del governo è esattamente quel che Renzi negò quando il segretario era Pier Luigi Bersani, tanto che fecero le primarie. Le vinse l’emiliano, che così cessò di fare il segretario senza certo andare a governare. Ora è Renzi che pretende di far valere quel che allora considerava un’offesa alla libertà e alla democrazia.

Da vecchio ammiratore della Leopolda, desidero lanciare a Renzi un secondo avviso: guardi che la fine di Segni non fu certo infamante, fu solo una sconfitta. C’è di peggio. Ma mi sfugge perché voglia sperimentarlo sulla propria pelle.

Pubblicato da Libero

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