Nei cieli turchi e siriani s’è illuminata la natura politica del conflitto siriano. L’aspetto militare viene dopo. Quello turco è stato un agguato, premeditato e organizzato. Lo rendono noto essi stessi, nel momento in cui fanno capire che la loro aviazione ha abbattuto un bombardiere russo eseguendo un ordine del primo ministro. E’ evidente che non è stato consultato nel mentre gli aerei erano in volo, nel tempo che occupa la procedura da seguirsi in questi casi. Il suo ordine era precedente. Ed è proprio questo a rivelare la caratteristica dello scontro.
I turchi si muovo sulla base di una (ipotetica) ragione formale, accusando i russi di avere sconfinato e volato nel loro spazio aereo. I russi rispondono che non è vero, ma mettiamo che, dal punto di vista formale, i turchi abbiano ragione, che lo sconfinamento ci sia stato. Come facevano ad ordinare l’abbattimento prima ancora dello sconfinamento, o nei minuti del sorvolo? Era possibile perché se ne verificavano ogni giorno. Forze enormi si muovono in uno spazio ristretto. E non in uno scontro fra due eserciti, ma in una battaglia multipla su molti fronti. La ragione formale ha spinto i turchi a chiedere una riunione Nato. Ma c’è anche la sostanza: hanno abbattuto un bombardiere russo nel mentre quelli volano in guerra contro l’Is. Più che da alleati dell’occidente (la “Na” di Nato sta per “North atlantic”) hanno agito da alleati del non stato islamico. Difficile immaginare uno scenario più grave e pericoloso.
Perché i turchi commettono un simile azzardo? Ci sono ragioni di politica interna, tese a consolidare definitivamente il dominio di Erdogan, ma sono di contorno. La ragione più forte è che i turchi rivendicano non solo un ruolo nella Siria post bellica, ma anche una parte di quel territorio. Non a caso chiedono che ci sia una no fly zone sulla regione turcomanna, che con loro confina. Quella in cui è caduto il bombardiere russo. Ecco, quindi, il rebus politico: in uno spazio limitato potenze militari diverse conducono ciascuna la propria guerra, su fronti diversi e intersecati. Non si risolverà mai sul piano militare. E la cosa paradossale è che la cancellazione dell’Is sarebbe la cosa più semplice, ma non univocamente voluta perché la si subordina all’accordo sulla spartizione successiva. Cosa che non si limita ai turchi.
Per dirne una, in una vicenda in cui il riemerge di zolle tettoniche della storia e della geopolitica non può certo essere riassunta in un articolo: i turchi sparano all’indomani dell’incontro fra Putin e il presidente iraniano, Rohani. Il messaggio è: la scusa dell’Is non è sufficiente ad accerchiarci e a consolidare un dominio sciita (l’Iran e la Siria alawita di Assan), piuttosto combattiamo dalla parte dell’Is. Che è quanto la Turchia stava già facendo, prestando supporto logistico (e non solo), fin quando non sono stati spinti a cambiare fronte. Andando a bombardare, però, non i fondamentalisti dell’Is, bensì i curdi. Che sono i più efficaci nemici del non stato islamico, ma anche non sopportati dai turchi, che li hanno anche dentro i propri confini. I russi, del resto, bombardano l’Is, ma anche i ribelli anti Assad, e non perché vogliano tenerlo in piedi (non ci tengono), ma perché non intendono cambiare l’equilibrio di una zona nella quale hanno, fin dai tempi dell’Unione Sovietica, le loro basi militari. I curdi combattono eroicamente contro l’Is, ma anche perché puntano ad avere una parte dell’Iraq, quanto meno da federare con il Kurdistan (cosa che fa inorridire i turchi). In quella zona ciascuno combatte la propria guerra. Segno che la politica ha fatto stracilecca.
La descrizione, assai sommaria, appena fatta segnala un assente: l’occidente o, per essere più precisi, gli Stati Uniti. Quell’assenza è un fallimento politico e diplomatico. Che il cielo ci guardi dal tradurlo anche in fallimento militare.
Quell’area è stata disegnata alla fine della prima guerra mondiale, dopo il crollo dell’impero ottomano, alla conferenza di Parigi (capricciosa ironia della storia). Se non vogliamo reimbarcarci in un conflitto di tutti contro tutti, destinato a riportare il calendario indietro di cento anni, la prima cosa da attivare è la politica e la diplomazia. Le armi servono a rendere forti le posizioni politiche, mentre le politiche deboli generano conflitti devastanti e perdenti, se fortificate con le bombe. La risposta armata al terrore parigino ha un senso, ma solo se viene dopo, non prima e mai invece, una costruzione politica. Con esatta definizione dei fronti. Altrimenti accadrà ancora quel che è accaduto ieri.
Intanto, da subito, deve essere data una risposta ai turchi: ammesso che sia vera la loro ragione formale, non ha alcun peso sostanziale, giacché essi non sono un Paese aggredito, semmai aggressore. La Nato si riunisca, non certo per dare ragione ai turchi, ma nel caso non si fosse nelle condizioni di formalizzare il torto che hanno, almeno per imporre una diversa condotta su quei confini. In caso contrario sarebbe la Nato ad avere perso, quello che in passato fu un complicato, ma prezioso bastione orientale, regalando ai russi l’ennesimo successo politico.