Politica

Trasformismi

Il governo è già in crisi e la legislatura già finita. Da tempo. Il nodo sta in come s’arriva a certificarlo. Il problema è quel che avviene dopo. Gianfranco Fini ha ieri ribadito che si sente estraneo alla maggioranza che componeva. E’ organico ad un’intesa con Pier Ferdinando Casini e Francesco Rutelli. Ha aggiunto che le elezioni anticipate sono da escludersi e che non ce le possiamo permettere perché, con una parte del debito pubblico da ricollocare, sarebbero una iattura. Solo che, in questo modo, i conti non tornano, e non solo quelli economici.

E’ vero che la crisi deflagra in un momento a dir poco inopportuno, ma è anche vero che i tempi li ha scelti lui. Noi vedevamo i problemi da prima, già ci sembrava che la maggioranza avesse in sé il germe del disfacimento, è stato lui a dettarne il calendario. E’ vero anche che le elezioni non sono un passaggio sereno, nel corso del quale l’Italia può essere governata come dovrebbe. Ma qual è, l’alternativa? I governi tecnici sono fuori discussione, ne manca il presupposto fondamentale, ovvero la delega da parte della politica. Affrontare il momento più delicato della crisi, quello in cui può partire la speculazione sui nostri titoli del debito, con un governo non votato e privo di legittimazione popolare è un’avventura neanche temeraria, direttamente folle.

Si può far perno sul neonato terzo polo? Suvvia, non prendiamoci in giro. Dal punto di vista culturale sari un figlio del terzopolismo (allora disallineato da comunisti e democristiani), ma quello presente non è un “polo” neanche a cannonate. Casini e Fini si sono combattuti quando erano nello stesso schieramento (e il secondo ha preso il posto del primo). Rutelli ha combattuto entrambi, capitanando lo schieramento avversario. Fini deve la sua posizione odierna all’essere stato indicato come preferibile da Silvio Berlusconi, il che avvenne nel mentre sfidava Rutelli quale sindaco di Roma. Quei tre hanno in comune una sola cosa: il desiderio di contare più dei voti che prendono. E basta. Il loro cavallo di battaglia consiste nel dire alla truppa parlamentare che l’unico modo per non andare a casa e mandare a casa chi prese la maggioranza dei voti e li fece eleggere. Nobile programma. Sarebbe sufficiente vederli prevalere, tagliando fuori quel che temono (le elezioni, appunto) e tornerebbero a combattersi con ogni mezzo.

La sinistra è in condizioni anche peggiori, perché nel terzo polo sono in tre e tutti e tre pensano di potere comandare sugli altri due, mentre nella sinistra hanno la stessa idea delle coalizioni, ma sono decisamente più numerosi. Quel che è accaduto a Torino è esemplare e preoccupante: avevano un candidato non solo potenzialmente vincente, ma utile per la sua proiezione nazionale, per la capacità di dimostrare che la sinistra intende aprirsi oltre i confini di chi è cresciuto a pane e partito, Francesco Profumo, rettore del politecnico, anziché festeggiarlo lo hanno fatto fuori, mettendo al suo posto Piero Fassino. Lo hanno fatto perché le uniche elezioni cui veramente s’interessano sono le primarie, per determinare gli equilibri interni. Non vanno lontano, in queste condizioni.

Tutto ciò non significa che il centro destra versi in buone condizioni di salute, ma resta lo schieramento che gli italiani hanno votato e destinato al governo. Se si vuole scalzarlo si deve ripassare dalle urne. Ripeto: ogni ipotesi alternativa è estremamente pericolosa.

Terzopolisti e sinistra, che immagino s’ipotizzino alleati, altrimenti non si capisce dove diavolo possano pensare di andare a raccattare una maggioranza parlamentare, si concentrano su un solo punto: fare fuori Berlusconi. E’ legittimo, ma non sufficiente. Per costruire una maggioranza, che dia vita a un governo, è necessario indicare quali sono i collanti in positivo. Vogliono la riforma del sistema elettorale? Bene, ma quale? Devono dire agli italiani se, per operare, immaginano un ritorno al proporzionale, un uninominale maggioritario (e addio terzo polo) o un maggioritario più razionale dell’attuale. Non basta dire quel che non si è e non si vuole, perché si devono comporre programmi, mica poesie. Benedetto Della Vedova, che si lamenta perché gli si è attribuito quel che lui stesso ha ipotizzato (il consolidamento dei titoli del debito pubblico, che sarebbe impossibile e nefando), insiste sulla necessità delle privatizzazioni. Detta così significa poco, ma dentro c’è del buono. Il tema, del resto, era nel programma del centro destra, che non lo ha messo in pratica sia perché incapace che perché impedito dai compagni (pardon!) del mio amico Benedetto. Ecco, crede che si possa fare con la sinistra? Nichi Vendola alfiere del libero mercato. Straordinario, potrebbe accadere anche questo, ma, almeno ci piacerebbe sentirlo. E ci piacerebbe che non fossero come le privatizzazioni targate sinistra, a cominciare da quella di Telecom Italia, trionfo della dilapidazione, dell’opacità e dell’intrallazzo.

La verità è che molti politici si sono abbandonati ad un’antica malattia italica: il trasformismo. Vagolano fra gli estremi senza equilibrio, alla sola ricerca di visibilità. Non si tratta, dunque, di stabilire a tavolino chi ha ragione e chi torto, ma nelle urne chi ha la maggioranza dei voti. La democrazia funziona così, anche se alcuni di loro la frequentano da troppo poco tempo, per averlo interiorizzato.

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