A coloro che firmano l’appello per la riforma uninominale del sistema elettorale lancio, a mia volta, un appello: non prendiamoci in giro. Sono favorevole a quel tipo di sistema, ne scrivevo quando ancora avevamo il proporzionale e la prima Repubblica, ma non firmerò i generici auspici, che tanto spazio trovano sul Corriere della Sera, perché sottendono tre malintesi, o tre imbrogli, a seconda del grado di consapevolezza dei firmatari.
Il primo imbroglio è relativo all’attuale sistema elettorale, che un po’ tutti dicono di detestare, compreso il genitore, ma che, in realtà, piace a tutti. Anzi: a tutte. Piace a tutte le segreterie dei partiti, che non sono partiti veri, non hanno forme di democrazia interna, non c’è selezione dei dirigenti, ma si consegna a chi li guida il potere di stabilire la composizione dei gruppi parlamentari. Vale per chi vince le elezioni e vale anche per chi le perde, comprese le minoranze collocate appena sopra la linea di galleggiamento.
La cosa grottesca è che questo mostriciattolo ha fallito anche i due risultati cui avrebbe dovuto portare: gruppi parlamentari omogenei e assenza di conflittualità nel processo legislativo. Ha fallito, come fallirebbe ogni sistema maggioritario, perché i partiti lo usano con il trucco: stipulano accordi arlecchineschi, per vincere le elezioni, e poi, in Parlamento, lamentano l’andazzo variopinto. Con le liste blindate e il premio di maggioranza, pertanto, s’è tolto potere a chi aveva la capacità di raccogliere i voti (non sempre dei damerini), ma lo si è dato a chi non ha mai incontrato i propri elettori. Basta una spaccatura, a destra o a sinistra, e subito questi signori Nessuno diventano determinanti.
Detto ciò, alle segreterie il sistema piace, perché non avrebbero altro modo per piazzare in Aula gente che (prima) si suppone fedele e che non sarebbe in grado di reggere un dibattito neanche con i propri familiari, che, probabilmente, non li votano neppure.
Il secondo imbroglio è dato dalla genericità dell’appello: “uninominale” non significa molto. E’ uninominale il sistema inglese e lo è quello francese (che a me piaceva, quando esistevano i partiti), ma non sono affatto simili. Ed è un imbroglio far credere che con l’uninominale trionferanno la bontà, l’onestà e il contenimento dei costi elettorali. Suvvia! Era uninominale il sistema elettorale dell’Italia liberale, accusato di favorire ogni nefandezza, corruzione e clientelismo. Ripeto: sono favorevole all’uninominale, ma non c’è bisogno di sostenere quel che non ha fondamento.
Il terzo imbroglio è quello decisivo: finiamola di far credere che cambiando il sistema elettorale si possa rendere funzionanti le istituzioni, a cominciare dai poteri legislativo ed esecutivo. E’ una fanfaluca. Sono sedici anni che cambiamo sistemi, per ottenere sempre lo stesso risultato: un bipolarismo straccione, che pretese di travestirsi anche da bipartitismo e che, in realtà, ruota tutto attorno ad una sola persona: Silvio Berlusconi. E, sia chiaro, non è che tolto il perno la porta smette di cigolare, semmai casca, perché in sedici anni, a destra come a sinistra, s’è fatto di tutto per trasformare i partiti e la politica in mere tifoserie contrapposte, incapaci di pensare il futuro se non come il tempo in cui regolare i conti del passato.
Nel nostro sistema il governo è costituzionalmente debole e il Parlamento costituzionalmente lento, duplicatore e insabbiatore. Ciò dipende dal fatto che i Costituenti ebbero paura del “potere”, fecero di tutto per depotenziare la forza delle maggioranze. In questo sistema possiamo anche eleggere i parlamentari all’inglese, ma non avremo mai e poi mai un premier all’inglese, bensì solo coalizioni di collegio impegnate a spartirsi gli eletti nei collegi vincenti, salvo poi dividersi la mattina successiva allo spoglio.
A che serve, allora, far la parte dei finti saggi, compitare e firmare appelli che, se anche venissero accolti, non sortirebbero alcuno degli effetti sperati? Tanto più che i candidati nei collegi uninominali li sceglieranno i medesimi soggetti che oggi nominano parlamentari di nessuna esperienza, che anche si vantano di portare in quel posto il bene prezioso della propria ignoranza e della propria incapacità. Si dirà: ma così non si può andare avanti, è uno sconcio, l’Italia ha bisogno di cambiare. Sicuro, ma è la struttura costituzionale a dovere cambiare. E, paradossalmente (ma neanche tanto) è più facile trovare un accordo, serio, fra le parti per una così grande riforma, piuttosto che per una modifica del modo in cui si contano i voti e assegnano i seggi. Nel primo caso si parlerebbe del futuro, nel secondo degli interessi immediati e presenti. Nel primo si potrebbe provare a ragionare di politica, nel secondo si dovrebbe procedere per colpi di mano e di palazzo.
Mi sono stufato, invece, di parlare sempre e soltanto di sistemi elettorali, come se in quelli si racchiudessero e riassumessero i problemi e gli interessi del Paese. Votando all’inglese non si elegge la Camera dei Comuni. Votando alla francese non si elegge il Presidente della Repubblica. Per intenderci: uno che si mette delle piume colorate nel costume da bagno non è un pavone, è uno scemo.