Politica

Tremonti e le urne

Non sarà il gioco dell’estate, quello sul governo delle larghe intese, perché finirà prima. Il presupposto perché si possa giocarlo è che Silvio Berlusconi perda, oltre a Gianfranco Fini, anche Umberto Bossi, e che i due, assieme ad altri, assicurino al Presidente della Repubblica d’essere pronti a sostenere un nuovo governo. Vabbe’ che fa caldo, ma questi sono miraggi. Semmai è il presidente del Consiglio che potrebbe lavorare a consolidare e allargare le alleanze di cui dispone, se solo la piantasse d’incaponirsi su quel che non serve e decidesse di dedicarsi a quel che preme al Paese. Siccome, però, il gioco appassiona, e la posta è consistente, più d’uno s’industriano a come concretizzare il presupposto, al punto da soffiare la soluzione all’orecchio di giornali che non vedono l’ora di potere scrivere senza spremere troppo le meningi: portiamo Giulio Tremonti a palazzo Chigi. Qui le cose si fanno rischiose e, come suggeriva la mamma, il gioco è bello finché dura poco.

La questione non ruota attorno alla persona di Tremonti, ma al concetto di governo. Il ministro dell’economia è stato bravo a gestire la crisi e a tenere duro sulla spesa pubblica. E’ un merito grande. Moltissimi altri, al posto suo, si sarebbero comportati in modo diverso. Nel condurre quel lavoro è stato anche solo. Forte, ma solo. Come dimostra la storia della “manovra” da 25 miliardi, che ha subito due stesure, ha proposto due modalità diverse d’intervento, ma non ha mai dato luogo ad alcuna collegialità di governo. Si potrebbe dire, in maniera neanche troppo paradossale, che quelle misure erano in minoranza nel governo, hanno trovato una maggioranza predisposta in Parlamento e sono state digerite senza traumi dagli italiani. Tutto questo, però, c’entra poco con la ripresa, ovvero con le misure necessarie per crescere. Quando s’impone il rigore si distribuiscono dolori, quando si governa lo sviluppo, invece, si sceglie quali interessi privilegiare. E questa è politica. Che, in democrazia, si basa sul consenso. Questo è il punto: c’è un blocco consistente, istituzionale, finanziario e politico, che tenta di comandare senza farsi votare, quel blocco, oggi, cerca di usare il volto di Tremonti, che è uomo potente senza essere un leader politico capace di raccogliere voti in proprio.

Quelli delle larghe intese, in fondo, scelgono Tremonti per la sua debolezza, non per la sua forza. Vedono bene che è capace di resistere a pressioni enormi, ma è anche capace di cedere alla Lega, cui premono quattro allevatori che non rispettano le quote latte, danneggiando i tanti allevatori che non fanno i furbi, ma è proprio per questo che pensano di farne il loro uomo, perché non dispone di consensi propri.

Non credo che Tremonti si presterà mai a questo gioco. Mi stupirebbe molto, perché mostrerebbe un’altra debolezza, insospettata: la brama di capeggiare che supera il gusto di governare, la voglia di apparire che brucia quella di essere. E se la debolezza elettorale non può certo essergli addebitata come una colpa, questa seconda debolezza lo sarebbe. Grave e mescolata con ingenuità, perché nella giungla degli interessi il re leone si fa strada con le zanne, mica con la criniera. Fatto è, però, che tutto questo vociare nuoce significativamente alla salute del governo, anche perché Berlusconi ha stradimostrato, nella vita, di saper calcolare a freddo, mettendo le passioni al servizio di un disegno e non il contrario, ma, insomma, sul punto dell’apparire e dell’essere il più amato, come dire, ha una certa, femminile, presunzione d’unicità.

Nel 2004, a tre anni dalle elezioni, Tremonti lasciò il ministero dell’economia, a seguito dello scontro con Fini. Berlusconi prese l’interim, poi nominò Domenico Siniscalco. Fu l’inizio della fine della vittoria elettorale, non per il cambio della guardia alla scrivania di Quintino Sella, ma perché gli scontri interni alla maggioranza ne avevano logorato tanto la compattezza quanto l’operatività. Ci risiamo, né cambia qualche cosa il fatto che, questa volta, lo scontro è fra Berlusconi e Fini, con Tremonti corteggiato per la presidenza.

Taglio corto: la politica ha le sue regole e chi crede che tutto si riduca nell’esser abili a truschinare, lasciandosi la libertà di scegliere dove profittare, finisce regolarmente come l’asino Buridano, ignaro del determinismo causalistico e della confutazione di Leibniz. Noi abbiamo votato con un sistema elettorale che ha previsto e assegnato un premio di maggioranza, un sistema che stride con l’impianto costituzionale (proporzionalistico, compatibile con un maggioritario secco, ma refrattario a questa minestra), a fronte del quale cambiare maggioranza parlamentare equivale a governare senza una maggioranza elettorale. Significa commissariare la democrazia. Non sarebbe una tregua o una transizione, semmai la guerriglia istituzionale.

I segni di logoramento di questo governo sono evidentissimi, resi materialmente dal susseguirsi di fughe-dimissioni. Se non trovano la forza di ripartire, se non riescono che a ruzzolare, la via retta è una sola: tornare alle urne.

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