Politica

Treno presidenziale

Le vacanze dei parlamentari somigliano più a quelle dei bambini che non a quelle degli adulti. Le città non si sono desertificate, come in anni passati, perché cambia l’organizzazione produttiva e la distribuzione del lavoro, ma la chiusura del Parlamento rispetta ancora il calendario di quando s’andava in carrozza. Da domani quasi tutti saranno tornati al loro posto, ma faranno eccezione gli eletti non votati, che hanno un reddito superiore alla media, ma tempi di lavoro inferiori. Prima o dopo, però, anche le Aule riapriranno i battenti, i commessi saranno gli unici a vestirsi ancora in modo formale e le Assemblee riprenderanno a riunirsi. A quel punto Gianfranco Fini potrà considerare conclusa quest’orrida estate, ove non ha dato il meglio di sé e ha subito il peggio che c’è. Ma non potrà considerarsi risolto il problema della sua carica istituzionale, che non può continuare a ricoprire.

La commedia degli equivoci comporta che il gruppo dei finiani non sia considerato parte dell’opposizione, perché sostiene di riconoscersi nel programma della maggioranza e, ove la cosa coincida e si sovrapponga, intende reggere il governo. E prevede che Fini rimanga il cofondatore di un partito che non volle, nel quale non si riconosce e contro il quale organizza altre forze. Qualcuno s’illude che la rappresentazione possa durare a lungo, ma non lo credo. Anche perché ci sono diversi comprimari e qualche comparsa che, improvvisamente, possono aspirare a ruoli meno trascurabili. Detto in modo più ruvido: c’è in giro troppa gente in condizione di ricattare. Ma ammettiamo che il sipario non cali, comunque emergerà lo snaturamento della presidenza della Camera.

Secondo la nostra Costituzione, come in tutte le democrazie parlamentari, i presidenti delle Assemblee elettive sono espressione della maggioranza. Se viene scelta la persona adatta, si ritrova ad avere due responsabilità: garantire l’esecutivo che il potere legislativo non diventi la palude in cui tutto affonda e ristagna e garantire le minoranze che i loro diritti saranno tutelati e i regolamenti osservati. L’una cosa regge l’altra, per questo, nelle democrazie con più solide radici, a quel ruolo vengono chiamate persone di grande esperienza e senza alcuna vocazione estremista. L’Italia ha già sperimentato delle eccezioni, nessuna delle quali, però, s’è trovata nella condizione in cui oggi si trova Fini.

Prima venne l’eccezione apparente: con l’elezione di Pietro Ingrao e, poi, di Nilde Iotti, a presiedere la Camera furono chiamati rappresentanti della minoranza. Ma era, appunto, solo apparenza, perché la maggioranza dei voti (pur sempre necessaria) era assicurata dal fatto che i comunisti erano parte di quella maggioranza politica che reggeva non il governo vero e proprio, ma la cogestione parlamentare. Quei due presidenti, quindi, servivano a rendere più sicura e solida la maggioranza reale, non il contrario.

Diverse le eccezioni nate con la seconda Repubblica, quando le presidenze furono popolate da estremisti, nella speranza che ciò servisse a istituzionalizzarli (o sdoganarli, come fossero merce illegale). Prima venne Irene Pivetti, espressione di una forza minoritaria e, almeno a parole, secessionista. Poi fu la volta di Fausto Bertinotti, il più borghesemente conservatore, anelante all’invito blasonato, ma pur sempre capo di una formazione che si riteneva comunista. Entrambe queste esperienze furono infelici, comportando la scomparsa (politica) dei loro protagonisti, ma entrambe funzionali alle loro maggioranze. Fini è il terzo: un passato (lontano) estremista e un presente spiccatamente revisionista. Poteva essere il passaggio della consacrazione: da uomo di parte a uomo delle istituzioni. Ma le cose sono andate diversamente.

Le due presidenze parlamentari sono, costituzionalmente, a metà strada fra il ruolo di garanzia istituzionale (più vicino al Quirinale) e quello di garanzia politica (più vicino a Palazzo Chigi). Se uno dei due palazzi tende ad allargarsi, deragliando dai binari costituzionali, quei due presidenti sono i primi ferrovieri a vedere la locomotiva piombargli addosso. Si può cercare d’evitare il disastro, resistere strenuamente, oppure essere tentati di saltarci sopra, passando, almeno nei sogni, da capo stazione a capo treno. Fini ha commesso questo errore. Sicché, oggi, ha totalmente perso il ruolo di garante per la maggioranza, tanto più che l’estate ha scavato un fossato non solo invalicabile, ma colmo di coccodrilli. Non può restare al suo posto.

Esiste una scappatoia, molto italiota: resta dov’è, usa il silenzio per rispondere alle accuse, spera che passi la buriana, spera anche che la sorte punisca chi lo ha attaccato e piuttosto che mollare la seggiola s’incolla alla seduta, approfittando di un privilegio concepito per tutelare la funzione, non per imbalsamare chi la svolge. Non so se giovi ai congiunti, di sicuro non alle istituzioni.

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