Politica

Trespolo governativo

Va di moda la terza gamba. La collezione autunno inverno prevede, oltre all’arto aggiuntivo, toni pacati, tagli costruttivi e abbottonatura pudica. La cosa lascia un po’ sgomenti, perché quel che si sfoggiava in primavera estate era diverso: amputazione delle estremità, vociare concitato, risvolti distruttivi e sbracamento discinto. I costumi della stagione immediatamente successiva alle regionali prevedevano lo spezzato: giacca stile “questo partito è una caserma e io mi ribello”, pantaloni che cadevano alla “se devi star qui a petulare è meglio che tu vada a spigolare”. Ora sembra che le cose cambino: cappotto color “vado a chiacchierare giù in cortile, con gli amici, ma restiamo in contatto”, sotto cui indossare un caloroso “quando avete finito rincasate, che si mangia”. Sono gli stilisti ad avere invertito la rotta, o i clienti ad aver cambiato gusti? Ciò cui assistiamo ha un minimo di credibilità?

Anticipo la risposta: o Silvio Berlusconi e Gianfranco Fini hanno gestito come peggio non si sarebbe potuto la fase precedente, arrecando danni irreparabili a se stessi e significativi al Paese, oppure il novello treppiede governativo è falso come un Cartier d’oro venduto sulla spiaggia. Se sono stati degli incoscienti incapaci non si attendano l’applauso per la ritrovata, e posticcia, concordia. La loro unica speranza di futuro successo risiederebbe nell’incapacità della sinistra di rendersi attendibile e votabile. La solita gara: a chi perde di meno. Se, invece, come credo, siamo nel campo della patacca, non è banale indagarne l’origine. Cosa è successo? Cosa ha suggerito di trasformare in pace apparente una rissa nella quale non si erano risparmiati i colpi, sia alti che bassi?

Fini era vicino alla fine. Aveva cominciato chiedendo lo scontro politico e si era trovato nel pieno di una tempesta personale. Strumentale? Sicuro. Infondata e pretestuosa? No di certo. Reagì saccente, prima con otto risposte che non rispondevano a un bel niente (quando i politici la pianteranno di rivolgersi agli avvocati per fare politica, salvo deresponsabilizzarli nei processi, sarà sempre troppo tardi), poi annunciando che ride bene chi ride ultimo. Anziché ridere, nel giro di qualche settimana, gli toccò ammettere che lo avrebbe strangolato, quel neanche cognato ambientatosi nel principato. “Fermiamoci tutti”, disse. Sembrava un: pietà. Forse non era così, forse c’era dell’altro, e quel “noi tutti” era meno innocente di quel che poteva sembrare. Non lo so, ma so che quando era lì per annegare gli hanno teso un braccio e ora può richiamare lui il presidente del Consiglio al rispetto del programma, come ha fatto giusto ieri.

Berlusconi ha assistito al massacro di Fini senza far neanche un plissé. Se la godeva in disparte. Se lo sbocco fosse dovuto essere il trespolo c’è stato tutto il tempo di comprarlo con poco e farlo sembrare una scelta politica. Invece si procedeva in senso opposto, lasciando intendere che andava benissimo essere bipedi e, se del caso, anche saltare su un piede solo. Poi, colpo di scena: il presidente del Consiglio annuncia che parlerà in Parlamento e che sulle sue considerazioni sarà presentata una mozione di fiducia. Della serie: o ti pieghi, caro Fini, o ti spezzi alle urne. Immediatamente dopo il controcolpo di scena: ci sarà la mozione, ma non la fiducia. Segno che il pentolone politico stava scodellando qualche cosa di succoso: non parlamentari sparsi che transumavano, ma greggi organizzate e in movimento. Ovvero: una componete cattolica del Partito Democratico non ne può più, vuole andare via e non mettere la fiducia avrebbe agevolato la convergenza. In quel momento cominciano i computi su quota 316, ovvero la maggioranza senza i finiani. Ma qui arriva il controcontrocolpo di scena: si chiederà la fiducia. Fine dei giochi, ma in modo assai maldestro: la fiducia sarà votata dai finiani, ovviamente, come avevano annunciato fin dalla prima ora, rende impossibile l’afflusso di componenti politiche esterne e getta una luce ridicola sugli ovini in trasloco, che paiono pochi, illusi, famosi per un giorno (peggio del grande fratello) e, quel che (per loro) più conta, senza pascolo. Che senso ha, tutto questo?

La stabilità di un tavolo non è data dalla quantità di gambe, ma dalla loro disposizione: tre possono bastare, cinque risultare inutili, se allineate. Quelle del governo pensano d’essere alternative, che è anche peggio. Prendete il caso del federalismo: la Lega, che ne è la madre, preferisce andare a votare, perché realizzarlo subito equivale a far vedere che non è quella roba per tanti anni propagandata; i finiani non vedono l’ora di parlarne, perché nella commissione bicamerale o riescono a smontarne ogni velleità antimeridionale o su quella fanno saltare tutto, candidandosi a prender i voti delle vittime graziate (e ieri Fini ne ha dato pubblica conferma, parlando di “stanziamenti” da decidersi per il sud); Berlusconi si barcamena, il che regge finché si sta alle parole, mentre al momento di scegliere partono i saluti e baci. Come fa a funzionare? Non può.

Ho l’impressione sia in corso un grande gioco del cerino: tutti sanno che si consumerà, ma ciascuno conta che avvenga fra le dita di altri. Avvincente, ma anche avvilente. Ci sono un paio di cosucce, da non dimenticare: a. quando sarà passata l’ultima ora che consenta di votare entro marzo succederà di tutto, compresa la riattivazione delle fabbriche che producono dossier; b. nel frattempo c’è in giro gente pronta a sparare, sindacalisti che tirano sassate ad altri sindacalisti, il più grande quotidiano d’Italia che non esce perché il direttore s’è messo in testa d’essere il direttore e …. basta così. Pertanto: se si deve chiudere, meglio subito, soffiate su quel cerino del menga, se si deve andare avanti fatecelo credere. L’occasione c’è: la settimana prossima il governo presenti in Parlamento la riforma complessiva e seria della giustizia. Su quella chieda dibattito e voti. E vediamo subito dove si va a parare.

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