Il problema non è Donald Trump, che non sarà il prossimo presidente degli Stati Uniti. Il problema è che i due candidati di punta, dei due partiti che hanno fatto la storia di quel Paese, sono una la moglie di un ex presidente e l’altro il figlio fratello di due ex presidenti. La gara è ancora lunga e non è affatto detto che all’arrivo i cavalli siano gli stessi della partenza. Ma quel che oggi capita oltre Atlantico è quel che anche nella vecchia Europa conosciamo: stanchezza di idee, sistema incagliato, classe politica spremuta e fenomeni di rifiuto che si gonfiano come palloni aerostatici. Democrazie anemiche. Prendersela con il riportone di Trump, il suo linguaggio ruvido e le sue idee grezze, o prendersela con i Le Pen in piena faida familiare, o con gli ortotteri e il Grillo rinculante, e così via elencando i malpancismi continentali, serve a niente. Quelli sono i sintomi, non la malattia.
Si può prenderla larga, osservando che in assenza di guerre (vissute in casa, perché fuori dall’uscio abbondano) la classe dirigente più che forgiarsi si sforma nell’amministrazione dell’esistente. O si può prenderla dal lato popolare, osservando che i lunghi periodi di benessere sono meravigliosi, ma inducono nell’errore di credere che siano dati e non modificabili. O, infine, si può leggere la faccenda dal lato tecnologico, notando che la digitalizzazione ha bruciato la funzione pedagogica e aggregatrice dei partiti politici, con le loro propaggini associative e culturali, facendo viaggiare a velocità superiore il verbo degli sgrammaticati. Ma, insomma, la zuppa è sempre quella: democrazie frastornate e impaurite, che suppongono di potere regolare i conti al loro interno cancellando il resto del mondo, o retrocedendolo a fastidiosa rottura di scatole.
Il fatto che certi bollori protestatari non si tengano sul fondo ed emergano alla superficie elettorale, è positivo. Evita che s’accumulino fino all’esplosione. La storia del secolo scorso, con il crollo di democrazie importanti, ci ha insegnato che il dramma non fu il coagularsi delle schiere ripugnanti e mefitiche, ma l’incapacità degli altri di reagire, posponendo il resto. Forse non è un caso che, in Europa, il Paese che si dimostra, almeno fin qui, più solido, ovvero la Germania, sia governato da una coalizione fra partiti tradizionalmente contrapposti. Non è facile e non necessariamente porta bene, ma se cristianodemocratici e socialdemocratici avessero preso a sfidarsi usando tutte le debolezze dell’altro e la non decisività dei risultati elettorali, avrebbe loro portato sicuramente male. E la Germania sarebbe meno determinata nella difesa dei propri interessi. Sta anche in questo la saggezza di una classe dirigente: capire quando finisce la gara del consenso, quando va privilegiato l’esercizio del compromesso.
Capita invece, come da noi, che più le debolezze crescono più nascono capipopolo e capipartito che suppongono d’essere forti. E come tali si atteggiano. Donald Trump, negli Stati Uniti, potrà anche essere determinante, se vorrà comunque candidarsi, da indipendente. La sua corsa demagogica favorirebbe, in quel caso, il candidato più distante, colpendo alle spalle quello più vicino. Anche questo è già successo, sia ai democratici che ai repubblicani. Di sicuro, per molto tempo, le sue platee saranno le più affollate, anche perché le sue esibizioni le più accattivanti e divertenti. Ma resterà un candidato da riporto, perché la preda verrà restituita al cacciatore. Brutto segnale, se sarà un discendente dinastico, segno che è divenuto viscoso anche il grande Paese delle opportunità.
Non volendo rassegnarsi all’idea che solo provando il dolore si riesce a vivere lontano dalla decadenza, sarà bene alzare la testa e guardare noi stessi e il mondo non come una rendita del passato, ma come una sfida ancora da vivere.
Pubblicato da Libero