Non basta dire “università”, come non basta dire cultura, ricerca o innovazione per stabilire che, automaticamente, i soldi vanno trovati e sono spesi bene. Se servono a stabilizzare a vita ricercatori impegnati nella ricerca del posto fisso, ad esempio, sono buttati via. Di più, sono dannosi, perché i soldi sono mal spesi e, per giunta, contribuiscono a far scendere la qualità dell’istruzione superiore e a bloccare, per anni, l’accesso di giovani valorosi.
La riforma presentata dal governo ha molti pregi, a cominciare dal fatto che si stabilisce quali sono i poteri dei rettori e si fissa un limite ai loro mandati, o si afferma che nell’amministrazione degli atenei deve entrare anche il mondo produttivo. La discussione ultima, però, s’è avvitata sull’assunzione dei così detti precari, che con il premio alla qualità, la meritocrazia e la selezione c’entra come i cavoli a merenda.
La nostra università ha bisogno di una rivoluzione, e di un’immersione totale nella realtà. I nostri atenei si classificano, nel mondo, in modo imbarazzante. Umiliante. Eppure in essi custodiamo eccellenze di valore mondiale. Il nostro problema è che trattiamo le eccellenze come le mediocrità, conservando tutto a basso regime economico. Ciò nutre e rende stabile la vita di quanti lavorano nell’università, mettendoli al sicuro da quel che i loro colleghi considerano normale, nel mondo civilizzato: la continua sottoposizione ad esami e valutazioni. L’andazzo, però, c’impoverisce tutti, indebolendo la già non brillante competitività del sistema.
Il danno maggiore si abbatte sui giovani, che escono dall’università sempre meno numerosi. Abbiamo un apparente paradosso: l’università meno selettiva e, al tempo stesso, un basso numero di laureati. Ma c’è una razionalità, nel paradosso: perché continuare a fare quel che è inutile? Quindi si moltiplicano gli abbandoni. Il titolo di studio non è più un sistema di promozione sociale, perchè ha perso la sua funzione d’ascensore economico. Sarebbe ora che perdesse il suo valore legale.
I soldi servono, certo, e devono essere spesi, ma se indirizzati a propiziare cambiamenti profondi. Per tirare a campare no, non c’è ragione di mettere mano al portafogli.
Il sogno egualitario dell’università aperta a tutti e a basso costo ha prodotto un incubo: gli ultimi restano tali, in una società viscosa e che non premia il merito, mentre i figli delle famiglie più forti e protette vanno a studiare o a specializzarsi all’estero, riproducendo un vantaggio dovuto al denaro. E’ questo che si vuole, questa la strada che si pensa di battere ancora?
Ma la consapevolezza della realtà è davvero poca, e, come se niente fosse, s’è ripreso a parlare dell’università solo e soltanto perché c’è gente da assumere e mettere in cattedra. Come se lo scopo vero di tale struttura, assieme alla scuola, sia organizzare un servizio per chi ci lavora e non per chi ci studia. Ripeto, dentro le nostre aule ci sono straordinarie eccellenze, ma continuando a spendere soldi nel modo fin qui collaudato non facciamo che umiliarle. Il guaio è che gli interessi corporativi e le brame sulla spesa pubblica prendono forma concreta e hanno capacità di protestare, mentre gli interessi collettivi e la voglia di un futuro diverso restano a fluttuare nell’aria, incapaci d’incarnarsi in disegni politici. Sicché, ne sono sicuro, in molti giudicheranno sguaiate le parole qui utilizzate, sgradevoli i concetti. Ma dubito che ci sia qualcosa di più sgradevole che condannare in partenza i nostri giovani migliori.