Politica

Urne, calendari e costi

I costi della democrazia sono costi benedetti, se non diventano soldi buttati. Nell’anno in corso spenderemo poco meno di un miliardo, per la gioia di infilare schede nelle urne: 300 milioni per il referendum abrogativo “trivelle”; 370 per le amministrative; altri 300 per il confermativo costituzionale. Nel 2009, per evitare lo scempio, la maggioranza di centro destra votò una legge specifica, in modo da accorpare ai ballottaggi amministrativi un voto referendario. La stessa sinistra sostenne a spada tratta le buone ragioni dell’accorpamento. Ora, però, non solo si dividono le votazioni, ma si è proposto di riallungare il voto al lunedì, dopo averlo accorciato alla sola domenica. Per quanto ci si sforzi non si trova una buona ragione per procedere in tale senso. Hanno fatto precipitosa marcia indietro, applicando la tecnica dell’annunciare e del rimangiarselo. Nessuno creda si tratta di una questione estetica. Meglio comprenderne la sostanza.

Impossibile non osservare che il governo, e segnatamente il suo presidente, dopo avere escluso l’accorpamento con le amministrative (disse che era proibito, ma lo è tanto quanto nel 2009), ha esplicitamente fatto campagna astensionista, affinché non fosse raggiunto il quorum al referendum “trivelle”. Ometto di ripetere che tale posizione non è coerente con la legge in vigore. Fatto è che quando si predilige il non voto si stabilisce di votare in una sola giornata, domenica. Ora che si punta all’affluenza si adotta una condotta opposta, allungando il voto al lunedì. Dire che il governo cambia le regole a seconda della propria convenienza è il meno.

Ma non è tutto. Dove sta scritto che l’astensione possa essere contrastata votando anche il lunedì? A parte il fatto che le regole elettorali dovrebbero essere un costume scontato, sicché continuando a togliere e rimettere il lunedì si otterrà il solo risultato di confondere le idee a tutti, una tale dottrina parte dall’idea che una quota di elettori non si reca alle urne perché si trova in vacanza. Peccato che tanto massicci esodi non sono rilevati da alcuna rilevazione. E ove mai questo fosse il problema il modo migliore per rimediare consiste nell’assumere il costume delle altre democrazie occidentali: si vota in un giorno lavorativo, non feriale. Si tengono aperte le urne fino a tardi, sicché sarebbe escluso, per motivi di lavoro, solo chi ha un orario che va dalle 7 del mattino alle 24, senza pausa. Un eroe, ma non una massa.

Il non voto è impressionantemente cresciuto senza che per questo coincidesse con il tutto esaurito ai monti e al mare. Il non voto, la diserzione delle urne, è stato ed è anche un giudizio politico, una documentata disaffezione, una contabilizzata sfiducia, l’impressione che non abbia poi così senso scegliere. Un male, certamente, e chi scrive resta convinto che al voto non si rinuncia, ma è grottesco supporre che un fenomeno simile, divenuto ben più ampio dell’astensione fisiologica, possa essere riassorbito allungando i tempi e facendo crescere i costi. Anzi, sia per l’aspetto relativo alla misera astuzia, sia per il disinteresse al risparmio dei soldi del contribuente, c’è da credere che finisca con il farli crescere, i delusi e gli arrabbiati, anziché indurli a riprendere in mano la scheda.

Bisognerà piantarla di credere che la politica sia l’arte dell’affabulazione e dell’inganno, il regno in cui il più furbo siede sul trono. Anzi, è proprio quel modo di ragionare che ha allontanato tanti elettori dal gusto di esercitare i propri diritti. Tutte cose, me ne rendo conto, che non fanno breccia nella mente di chi pensa a vincere la gara, più che a rendere leale la competizione.

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