Ventilando l’uscita dal nucleare (dopo avere prolungato la vita delle centrali più vecchie) e tenendo la Germania fuori dalla guerra in Libia, Angela Merkel ha provato a parlare con l’elettorato tedesco, che continua a punirla ed abbandonarla fin dalle scorse elezioni politiche, le ultime da lei vinte. Non ha funzionato, anzi, la fuga dei voti s’è fatta più veloce e massiccia, travolgendo anche i liberaldemocratici del Fdp, suoi alleati. Il vecchio Helmut Kohl l’aveva avvertita: quella è una strada sbagliata. I fatti e le urne gli hanno dato ragione.
La cosa singolare è che l’ammirato (da noi) governo tedesco, la guida d’un Paese che cresce più della media europea, non piace agli unici elettori in grado di sostenerlo, quelli tedeschi. Nel Baden-Wuerttemberg e nella Renania Palatinato i cristiano democratici, Cdu, governavano da molti anni. Era un dominio assoluto, consolidatosi nel tempo e squagliatosi ora. L’altra cosa significativa è che gli elettori non hanno premiato tanto i socialdemocratici, Spd, tradizionali antagonisti della Cdu, quanto i Verdi, che dopo il lungo governo nazionale, assieme alla sinistra, sembravano quasi avere esaurito la loro funzione. Non credo questo possa spiegarsi solo con l’effetto Fukushima, tanto più che, appunto, la Merkel ha provato a cavalcare le paure collettive. Non è una spiegazione sufficiente perché non si tratta della prima sconfitta.
Tutto ciò serva di lezione: una classe politica che prova a inseguire l’opinione pubblica finisce con l’apparire perdente e priva di strategia, smarrisce il ruolo di classe dirigente e, conseguentemente, perde consensi. L’eventuale assenza d’alternative immediate e praticabili premia forze intermedie, o spiazzanti. Ne tenga conto il presidente francese, Nicolas Sarkozy, il cui piglio gaullista (che i giornali definiscono “napoleonico”, dimenticando che il corso si misurò con sfide ben diverse dalle elezioni) può risultare così strumentale e teatrale da non riuscire a compensare la perdita di credibilità personale, anche da lui subita. Anzi, rischia d’aggravarla, come puntualmente dimostrano i risultati delle cantonali, dove i socialisti riprendono quota in modo impetuoso e s’afferma la presenza del Fronte Nazionale.
E ne tengano conto anche i nostri governanti, che sono gli unici, fra tutte le democrazie occidentali, a non avere perso alcuna elezione intermedia, dopo la passata vittoria alle politiche. Il nostro è l’unico governo fin qui non abbandonato dai suoi elettori, anche se tutti si sentono autorizzati a descriverlo come una specie di vergogna internazionale. Anche da noi, però, incombono elezioni amministrative, così come incombono referendum che, se non razionalmente affrontati, rischiano di certificare l’incapacità di muovere l’opinione pubblica altro che in contrapposizioni personali.
Impostando una campagna elettorale Bill Clinton, allora Presidente statunitense, sostenne che quel che conta è l’economia. Come a dire: gli elettori badano al portafogli. Non aveva torto, ma non è l’unico ingrediente, qualche volta neanche quello prevalente. In caso contrario i tedeschi non avrebbero motivo di punire il loro governo. Conta molto la capacità politica di mostrare idee chiare circa il futuro, oltre alla capacità di dominare, o, almeno, governare il presente. Conta, insomma, l’essere credibili come guida. Da questo punto di vista, come anche le vicende libiche mettono in evidenza, per non parlare dei problemi posti dalle ribellioni in Siria, Paese governato da chi insidia l’occidente assai più del colonnello beduino, sembra che l’insieme delle nostre democrazie vivano una crisi delle classi dirigenti. Quando capita, di solito, vuol dire che la storia sta voltando pagina.