Giusto diffidare delle ricostruzioni e delle anticipazioni, che ci sono sempre state, ma se – come ha detto la presidente del Consiglio – la «legge di bilancio dobbiamo ancora scriverla», stiamo freschi. Diciamo che va rifinita e che sarà resa nota solo dopo la sua approvazione governativa, com’è bene che sia. Ed è proprio in vista di quei conti pubblici che è stato promosso un vertice per regolare quelli privati fra le forze che compongono la maggioranza.
Il problema però non è riaffermare la compattezza della maggioranza di governo, un atto scontato e rituale. Il problema è convincere che una maggioranza che ha passato l’estate a dividersi sia in grado di governare compiendo scelte che non ricalchino lo schema del regionalismo differenziato: si vota assieme e poi si impantana disuniti. Lo sventolio di bandierine, ovvero l’agitare temi al solo scopo di caratterizzarsi e farsi vedere, non è da evitarsi soltanto perché i margini di spesa sono ristretti ma anche perché è disdicevole evocare questioni che poi si lasciano per aria. I vertici possono essere utili a rimettere in sincronia le ruote, ma non servono a niente se si pensa di andare in direzioni diverse. Quando si dice “vertice” si pensa sempre al punto più in alto, ma i vertici possono ben trovarsi anche sotto, producendo (in politica) compromessi inutili o al ribasso. Magari anche con la surreale diffusione di due testi diversi, come ieri accaduto, e sul delicato tema della guerra criminale scatenata dalla Russia.
Il coordinamento degli investimenti Pnrr era stato originariamente (dal governo Draghi) allocato al Ministero dell’Economia. Il governo attuale lo ha portato sotto la competenza di un apposito ministro, il quale ora è in partenza verso la Commissione europea. L’intera gestione intendono tenerla a Palazzo Chigi, ma non basta tenersi la struttura di Fitto, non basta l’accordo di maggioranza: ci vogliono capacità di controllo e rendicontazione continui. Chi lo fa?
Lo schema della legge sul regionalismo differenziato è di scuola: uno degli alleati la vuole, gli altri no; non potendo negargli la bandierina, si vara un testo nel quale è scritto che diventerà realtà solo dopo che saranno fissate le condizioni economiche; per fare la qual cosa si fissano due anni di tempo, senza che neanche sia vincolante; l’unità è salva, le posizioni di ciascuno anche, la legge è votata al suicidio. Festeggeranno quelli che furono separatisti, divennero nazionalisti e si tennero federalisti, così come gioiranno quelli che prima di votare l’iper regionalismo immaginario erano per lo scioglimento delle Regioni. Spettacolo avvincente, ma non convincente.
L’altra versione dei vertici allo sprofondo consiste nella pratica del rinvio, modello balneari: non solo sanno tutti che si devono fare le gare, ma quasi tutti hanno capito che è molto conveniente e che tappare il mercato riproduce all’infinito l’infamia dei taxi inesistenti; ma siccome questo contraddirebbe le molte stoltezze dette, si predilige il rinvio non potendo più sostenere il diniego. Una perdita di tempo nonché di ricchezza.
Poi c’è la tecnica dell’assaggino. Ho detto che avrei varato la flat tax (il che non avverrà mai)? Allora la faccio per gli idraulici mancini. Ho detto che avrei ridotto le aliquote Irpef? Allora procedo con le limature e chiamo «ceto medio» la minoranza dei contribuenti. I piccoli passi andrebbero anche bene, purché si conoscessero approdo, tempistiche e coperture per rispettarli. In assenza di ciò si procede con degustazioni omeopatiche.
Infine ci sono le questioni non comprese nel programma di governo, come quella della cittadinanza, per la quale si è affermata una originale dottrina: ciascuno ha il diritto di dire quel che la coscienza gli suggerisce, anche se gli altri dissentono vivacemente, ma nessuno sarà così incosciente da trasformare in legge, cercando i voti in Parlamento, quel che i colleghi governanti non condividono.
Con il che, come asseriva il personaggio di Peppino De Filippo, «ho detto tutto».
Davide Giacalone, La Ragione 1 settembre 2024