Politica

Vietnanistan

L’Afghanistan, fanno dire i talebani a Bowe Bergdahl, giovane militare statunitense da loro rapito, si sta trasformando nel Viet Nam. Intendono dire: non vincerete mai, resterete infognati nella guerra, vi dissanguerete fin quando sarà il vostro popolo a chiedervi di smettere, perché incapace di comprendere la ragione del conflitto. A parte ogni altra considerazione, noi italiani non c’eravamo, in Vietnam, qui sì. Non solo ci siamo, ma siamo i terzi, in ordine di consistenza militare, e dopo la decisione di rafforzare le truppe, presa dagli alleati, ma fortemente voluta dal presidente americano, siamo i secondi, dato che i rinforzi italiani sono di gran lunga superiori a quelli inglesi. Ci riguardava anche il Vietnam, ma l’Afghanistan ci riguarda di più.
Una prima considerazione: sui giornali italiani, e spesso nelle dichiarazioni di politici che parlano senza preoccuparsi di pensare, si legge e rilegge che il rapporto fra italiani ed americani si stia logorando, a causa delle nostre relazioni con i russi ed i libici. Il dato che ho appena citato depone in senso opposto. Ma, a volere ragionare, anche sul resto c’è da ridire: senza un buon rapporto con i russi l’Afghanistan sarebbe una trappola peggiore, come lo fu per loro, quando vi combattevano, sfidando anche l’occidente. C’è una lotta aperta, dietro le mura del Cremlino, e c’è l’uso politico del gas, con cui i russi stanno comprando una parte della politica europea, ma guai a dimenticare che a noi quel gas serve, ed all’occidente serve la collaborazione russa. In quanto alla Libia, era assai più imbarazzante il rapporto di sudditanza con i fanatici ed aggressivi teocrati iraniani, che non l’accondiscendenza nei confronti di “er monnezza”. E sempre di petrolio si parla. Sono terreni difficilissimi, che meritano meno fretta e più ponderazione. Le stelle polari restano due: le relazioni con gli Usa e con Israele. Fin qui, va bene così.
Il Vietnam fu una guerra giusta, voluta da Kennedy e dai democratici (come Obama), per avvertire il comunismo che l’occidente non si sarebbe fatto sfilare fette di mondo. La sfida non fu esclusiva, ma in quella ex colonia francese fu mortale. Gli americani combattevano con una mano legata dietro la schiena, rinunciando alle armi più potenti. In compenso usavano il napalm, con l’orrore conseguente. Non erano padroni del territorio, dovendo procedere anche contro i villaggi. I khmer rossi non erano combattenti per la libertà, ma soldati di una dittatura genocida. Nuotavano nelle loro acque, purtroppo, che non si potevano né avvelenare né prosciugare. Alla lunga, la durezza e la crudeltà della guerra (non ne esistono, di umanitarie), consigliarono un presidente repubblicano, Nixon, di porre fine alla faccenda, abbandonando quella gente al proprio massacro nazionale. La sinistra, in particolar modo quella europea, festeggiò. Ancora oggi mi domando se abbiano capito qualche cosa, di quel che successe.
L’Afghanistan si trova in un contesto differente, ma vi sono anche somiglianze. Non c’è la guerra fredda, ma c’è il confronto geostrategico con la Russia e quello economico e commerciale con Cina ed India. Quest’ultimo Paese è avversario del Pakistan (entrambe potenze nucleari), la cui collaborazione è per noi indispensabile in Afghanistan. In più ci sono gli iraniani, che detestano i talebani, per ragioni religiose, ma li vedrebbero volentieri vincitori, per ragioni strategiche. Si combatte su fronti diversi, non omogenei.
In più, non utilizziamo tutte le armi, perché quando si parte per una guerra “buona” si cerca di non essere troppo cattivi, sicché ai talebani è permesso quel che fu ieri permesso ai khmer: utilizzare la popolazione civile come strumento mimetico e come scudo.
La guerra nacque, opportunamente, quando si volle chiarire, in via definitiva, che non era possibile utilizzare stati canaglia, fanatizzati dall’islam ed arricchiti dalla droga, per sferrare attacchi contro le democrazie. Fu cosa giusta. Una guerra di questo tipo non si può perdere, perché, in quel terribile caso, sarebbero indeboliti tutti i governi islamici dialoganti con l’occidente, a tutto vantaggio dei fondamentalisti. Ma, per vincerla, occorre accettarne le peggiori regole.
Obama, in campagna elettorale, solleticò le voglie di chi vuol vedere i ragazzi tornare a casa e vuol smettere di spendere soldi per portare la democrazia in un Paese che non la conosce e non sa usarla. Che se la vedano loro, pensano in molti. Ma, divenuto presidente, Obama fa l’esatto contrario. E non ha scelta, perché quella guerra non è affar loro, ma nostro. Ci fanno sapere che sta diventando il Vietnam? Bé, cerchiamo di comprendere il messaggio e di evitare gli errori di allora, ricordando che, per le democrazie in guerra, c’è un fattore fondamentale: il tempo. La guerra deve chiudersi prima che i popoli dimentichino perché è iniziata. Solo così, possiamo vincere.

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