Politica

Zuffa e fuffa

Manderemo degli esploratori, per scoprire la Padania. Manderemo dei cartografi, per descriverne i confini. Manderemo degli storici dell’arte, come Vittorio Sgarbi, che si annette il merito d’avere indicato a Umberto Bossi il nome di quei luoghi, per la verità intesi come ambito culturale e con un diverso accento: Padanìa. Ma una volta che avremo accertato la consistenza di un territorio che si estende su più regioni, constatando che non risponde ad un prefisso telefonico internazionale, ma a prefissi distrettuali italiani, non avremo fatto un solo passo in avanti. I leghisti sono maestri nel far parlar d’altro, e gli altri ci godono ad abboccare, ma la guerra apertasi dentro la maggioranza ha poco a che vedere con quali inni si suonano, per quali squadre si tifa e quali ampolle si agitano. Questa è fuffa, con rispetto parlando, la sostanza si trova qualche piano più in basso.

Ricordo il dibattito parlamentare che segnò la nascita del governo Dini, nel gennaio del 1995, quando Gianfranco Fini e Bossi se ne dissero di tutti i colori, con la Lega che aveva appena provveduto a far cascare il governo Berlusconi, di cui erano alleati. Il fatto è che sono passati quindici anni, e siamo ancora inchiodati a quella roba lì. Con la Lega che alterna una propaganda dai toni e dai contenuti impraticabili (ancora domenica scorsa, a Pontida, hanno parlato di secessione!) a comportamenti assai responsabili (la riforma costituzionale votata dal centro destra, due legislature fa, era più responsabile e rispettosa dell’unità nazionale di quanto non lo sia la sciagurata riforma del titolo quinto, votata dalla sinistra e, malauguratamente, ancora vigente). E con la destra di Fini (sempre che non si offendano a sentirsi chiamare di destra, loro che ritenevano Mussolini il più grande statista del secolo scorso) che va a corrente alternata: in un lampo s’alleano con la Lega e al lampo successivo la ritengono forza eversiva e disgregante. Gli uni e gli altri sono sempre gli stessi, gli uni e gli altri si ritrovano assieme, per vincere le elezioni, salvo poi dividersi, riscoprendo tardivamente le loro diversità.

A un certo punto devono farla finita, l’uno ricordandosi d’essere presidente della Camera grazie ai voti dell’altro, e l’altro d’essere al governo, grazie ai voti di chi non sopporta. Ambedue colti da amnesia elettorale, visto che la gran parte dei voti ce li mette il popolo di centro destra che non li vota, non li sceglie e, alla lunga, neanche li sopporta. Posso dirlo in maniera politicamente scorretta? Sono due minoranze che s’industriano a rendere vano il voto della maggioranza relativa degli italiani, con l’aggravante che, a dispetto di tanta demagogia nordista, l’attuale governo ha vinto le elezioni grazie agli elettori del sud.

Ma non ne usciamo, perché questa è la condanna insita in un sistema politico che s’incaponisce a volersi immaginare bipolare e maggioritario, non essendo né l’una né l’altra cosa.

Mentre ferveva il dibattito sulle denominazioni geografiche, il Presidente della Repubblica è intervenuto anche sul calendario dei lavori parlamentari. In un sistema istituzionale equilibrato sarebbero dovuti essere i due presidenti delle aule a fargli osservare che esistono ancora dei confini costituzionali. E nessuno dica che l’intervento quirinalizio sia stato innocente, perché non c’era alcun bisogno di sollecitare l’anteposizione della discussione sulla manovra economica agli altri temi (leggi intercettazioni), per la semplice ragione che quello è un decreto legge e, pertanto, deve essere convertito in sessanta giorni, non essendo ipotizzabili rinvii. E se la Presidenza ha potuto esprimersi su un tema che non le è proprio ciò si deve alla confusione fatta dal governo, che ha pasticciato in modo imbarazzante: prima s’è perso tempo, poi s’è posta la questione di fiducia, quindi s’è detto che il provvedimento non poteva essere modificato, quindi s’è preso in considerazione un rinvio, infine (infine?) s’è aperta la via a qualche ritocco. Ne risulterà un provvedimento politicamente costoso e strumentalmente inutile.

La scena relativa alla manovra economica, inoltre, già me la immagino: prima il decreto, poi, ancora una volta, la richiesta di modifiche, quindi una discussione accesa e interminabile, che sarà chiusa dal maxi emendamento, il solito guazzabuglio di commi, su cui sarà posta la fiducia.

Se la cosa è così prevedibile, ci si domanda, perché non rimediano subito? Perché sono troppo occupati nel regolamento dei conti interni, con guerre di potere che si svolgono attorno alle competenze ministeriali, puntando ad un progressivo svuotamento del vacante Ministero dello Sviluppo e ad una redistribuzione delle deleghe che preluda al rimpasto, o lo eviti fotografando meglio i rapporti di forza. Tradotto in termini più semplici: i leghisti chiedono di più, altrimenti si mettono di traverso e non fanno passare nulla, a cominciare dalla legge sulle intercettazioni (Bossi è stato chiaro); i finiani sono già di traverso, ma attendono che siano i padani a tirare la corda; le Regioni soffrono e strepitano; il ministro dell’economia va per la sua strada. Non vi pare che manchi qualcuno? Esatto: il presidente del Consiglio.

Per essere più precisi, e non cadere sempre nelle personalizzazioni, manca l’unitarietà della politica governativa, il senso della missione comune, del lavoro univoco, della marcia in una sola direzione. Manca la politica, lasciando spazio libero alle invasioni di campo costituzionali, ai dibattiti oziosi e allo sgomitare per conquistare fette più consistenti di rilevanza governativa. Nell’arena l’accapigliarsi è tanto furibondo quanto alta la polvere. Ogni tanto si fischia la momentanea sospensione dell’agitarsi e qualcuno propone di cambiare la Costituzione. Tutti applaudono, nessuno lo prende sul serio e si torna a darsele di santa ragione. L’opposizione, tanto, se ne sta sugli spalti, magari paga anche il biglietto, e fa il tifo per gli uni o per gli altri, evidentemente ritenendosi fuori dal gioco.

Così, però, non dura. Ed ho appena scritto una cosa di grande ottimismo, perché sarebbe peggio se durasse a lungo, danneggiando l’Italia e deludendo gli italiani che hanno creduto (e votato) in una diversa sorte. Se qualcuno ha qualche cosa da dire e da fare, per fermare questo spettacolo, è il caso si muova in fretta.

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